
Yol è, detto in poche parole, il racconto di alcuni giorni vissuti fuori dal carcere grazie ad un permesso. Giorni in cui, per quanto "liberi", i protagonisti si sentiranno paradossalmente ancora più oppressi che all'interno di un cella.
La storia è quella di cinque detenuti che – dopo tanti anni – cercano di rientrare presso le proprie famiglie (o quello che ne resta), finendo per rimanere inesorabilmente schiacciati dal peso di troppe cose per le quali – sembra dirci Guney – in una società chiusa fra autoritarismo militare e barbari estremismi, chi commette un errore finirà per portarselo appresso (con l'angoscia ed il peso del rimorso) per il resto della sua vita. Non c'è spazio per il perdono in questo film, non c'è spazio per la felicità.
"La tristezza ha innumerevoli tonalità, diverse facce", scrive in apertura lo scrittore-montatore Guney che in "Yol" [La strada], ci mostra senza enfasi, né sconti cosa significa per i curdi vivere in un perenne stato di oppressione culturale, persecuzione politica e repressione fisica. Ci mostra la tragedia di un popolo attraverso la scoperta anche dei suoi lati peggiori, figli di una situazione di miseria materiale e culturale imposta dalle autorità.
Terribilmente attuale, nonostante tutti gli sforzi per legittimare le istituzioni turche, eterne promesse dell'Unione Europea e ultimo baluardo (geografico) prima degli Stati islamici. Un ruolo strategico quello della Turchia, alla ricerca di un difficile equilibrio interno fra "laicità" e "religione" che finisce per ripercuotersi sulle rivendicazioni di autonomia di un popolo scomodo.
1 commento:
Bravo "man who wasn't there"! anche stavolta ci hai incantato con la tua prosa. Aggiungo solo, se me lo consenti, che le storie di donne raccontate in questo film rappresentano davvero il dramma nel dramma...
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