mercoledì 16 luglio 2008

Vivre sa vie (Questa è la mia vita) - J. L. Godard - 1962


Nanà è una giovane aspirante attrice che, non riuscendo ad affermarsi, campa lavorando in un negozio di musica e poi, quasi per caso, diventa una prostituta. Il suo "protettore" decide di venderla e, nella sparatoria che ne consegue con l'altra banda, Nanà viene uccisa.
Premio speciale della Giuria e premio della critica al Festival di Venezia, "Vivre sa vie" (Questa è la mia vita") è, come si capisce meglio dal titolo originale, il racconto "in 12 quadri" di una vita vissuta. Di una vita che non chiede compassione, ma nemmeno ovviamente giudizi e biasimo. Una vita che è la "propria" vita, dove quel "propria" può riferirsi a ciascuno di noi.
Nanà cerca di emergere come attrice, ma non è del tutto convinta dei metodi che le vengono proposti, come il posare svestita. Si dà da fare per sopravvivere e, con un'indifferenza apparentemente assoluta, comincia a battere. Non odia i suoi clienti, ma nemmeno prova piacere nell'andarci a letto o nel ricevere i soldi. Semplicemente, lo fa. Quello che più emerge del carattere della protagonista non è però la sua ignavia. La sua non è indifferenza. Nanà – che si commuove al cinema guardando "La passione di Giovanna d'Arco" - è anzi assolutamente convinta della responsabilità personale di ciascuno di noi in qualunque cosa facciamo ("Fumo una sigaretta? Sono responsabile") ed è conscia di come la fuga non sia altro che una mera illusione. Elogio al libero arbitrio forse non pienamente condivisibile, ma certo di indubbia efficacia.
Nanà è un'anima libera, che parla, balla e beve con tutti. Ma ha una grande difficoltà, che forse è quella che la porta ad essere così apparentemente passiva nei confronti di quello che le succede attorno: non riesce in realtà a dire le cose che pensa.
È questo – quello della incapacità del lessico di trasmettere fedelmente i pensieri – l'oggetto di una discussione che Nanà ha dentro un caffé con un anziano scrittore-filosofo, che le contesta l'assunto secondo il quale, in presenza di questa incapacità, sarebbe meglio vivere senza parlare. Le porta l'esempio di Platone, ancora perfettamente comprensibile a 2500 anni di distanza e benchè nessuno oggi parli più la sua lingua. Bisogna, dice l'uomo, diventare capaci di farsi comprendere perchè per comunicare e per pensare bisogna parlare. Tuttavia, per acquisire questa capacità non scontata, occorre "rinunciare un po' alla vita". Questo è il prezzo: parlare è un po' una "resurrezione". Occorre distaccarsi ed uccidere la vita quotidiana, piccina, per elevarsi alla vita dotata di pensiero e di profondità. Che presupppone necessariamente di passare dall'errore per arrivare alla verità: non c'è verità senza l'errore.

Dedicato ai "B-movies", Vivre sa vie pare proprio essere un tentativo (in questo, riuscitissimo) di Godard di mettere in scena alcuni modi "alternativi" per comunicare, in un mondo, come quello cinematografico (ma certo, potremmo elencarne anche molti altri), incatenato all'unico (mezzo di espressione del) pensiero dominante: quello del cinema americano classico. Con lunghissimi piani sequenza, campi e controcampi a panoramica, inquadrature dove chi parla è "impallato" dal suo interlocutore, etc. il regista (e scrittore, montatore) francese vuole dimostrare le infinite opzioni del linguaggio (anche) cinematografico.
I temi scottanti che il film tocca (la prostituzione, la libertà collegata a responsabilità, la necessità di uccidere la quotidianità per elevare il proprio pensiero), lungi dall'essere lasciati in secondo piano dal mezzo utilizzato, ne costituiscono invece il perfetto oggetto: anch'essi – in quanto più complessi – sono generalmente taciuti per adeguarsi ai temi dominanti, più facili, immediati, subito percepibili.

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