domenica 30 novembre 2008

Il vento fa il suo giro - G. Diritti (2005)

Piccola produzione italiana, finanziata in cooperativa – di cui fan parte anche gli stessi attori (non professionisti) –, Il vento fa il suo giro è un film che parla, con le immagini e (a tratti troppo) con i dialoghi, della difficoltà umana nell'accettare il nuovo, il diverso, senza pretendere che questo si pieghi in toto alle regole preesistenti e si dimostri continuamente grato verso chi generosamente lo ha tollerato sul suo territorio.

Vuole parlare in generale questo film di Giorgio Diritti e forse il difetto più grande di questo lavoro – comunque di ottimo livello – si trova proprio nella sua pretesa didascalica e generalizzatrice. O meglio, al mezzo cui questa pretesa (condivisibile) viene affidata: il dialogo, ovvero il mezzo più semplice. Quando alle baite, ai monti di Chersogno ed ai volti, sinceri e credibili proprio perchè sono state scelte persone del luogo, si sostituiscono i dialoghi filosofici e "da professore" di Philippe, ecco che il film finisce per diventare ridondante, appesantirsi, perdere di spontaneità, allungarsi eccessivamente. Sarebbe allora stato meglio lasciare che fossero le immagini - e magari la successiva riflessione dello spettatore – ad affrontare i discorsi (pienamente condivisibili) sulla non-staticità delle culture e sulla necessità di non fermarsi alla "tolleranza" di chi viene da fuori ed è portatore di una storia ed una cultura altre.





Il racconto è ambientato in un piccolo paese ormai spopolato, al confine fra il Piemonte e la Francia. La gente del luogo – una decina di persone stabili, più quelle che vivono in città ma passano le ferie in paese – parla l'occitano e pare tanto legata alle proprie tradizioni quanto rassegnata a vederle scomparire per sempre senza reagire.

Il paese sta morendo, tutti ne sono consapevoli. Eppure, la richiesta di questo ex-professore francese, divenuto pastore perchè "a scuola si insegnano cose inutili ai ragazzi", di trasferirsi dai Pirenei con la moglie ed i tre figli per far pascolare le proprie pecore e fabbricare il formaggio, è accolta con molta diffidenza. C'è chi ha paura perchè non lo conosce, chi teme che "poi arriveranno gli albanesi", chi dice che bisogna prima pensare alla gente (quale?) del paese ed alla conservazione delle sue tradizioni: insomma, meglio preservare rigidamente immutate le usanze e farle così morire, che aprirsi alla contaminazione e garantire così una sopravvivenza dignitosa al paese.

Ad aggravare la situazione, c'è il fatto che sono tutti molto preoccupati per via di alcuni furti nella zona: i ladri si sono infilati in alcune delle case sfitte per undici mesi all'anno ed i montanari, impauriti, si sono ancor più chiusi in se stessi.

Comunque, grazie al coraggio ed alla disponibilità del vice-sindaco, speranzoso di rilanciare il paese, una casa per la famiglia francese alla fine si trova e sono in diversi a dare una mano per ristrutturarla. Dopo un inizio di convivenza all'insegna dei buoni sentimenti, tuttavia, la diffidenza torna a riemergere ai primi screzi. La famiglia, dapprima adottata e benvoluta dai più, viene isolata, ogni gesto non conforme alle rigide convenzioni paesane viene enfatizzato per sottolineare la "diversità" e l'estraneità di quei normalissimi e semplici francesi, trattati ora come "pezzenti", ora come "puzzoni", ora come incapaci di una convivenza civile. La situazione degenera e dai primi rimproveri per via dello sconfinamento delle capre su terreni su cui non era loro concesso di pascolare, si arriva fino ad avvertimenti in stile mafioso. Quando la famiglia deciderà di andar via, saranno in pochi a soffrire per questo progetto di convivenza fallito.

Finale amaro ma inevitabile, viste le premesse: la buona volontà di alcuni deve arrendersi di fronte all'enormità degli ostacoli. Le domande, i dubbi e le riflessioni che portano queste persone provenienti "da fuori" sono troppo per una società moribonda che decide dunque di suicidarsi.


Ci vorrà tempo ed un paziente lavoro per cancellare questa bizzarra (e solo contemporanea) idea – perpetuata e sfruttata dal dibattito politico e dal macchiettismo televisivo – per cui le "tradizioni", le "radici", le "origini", le "usanze" sono qualcosa di immutato ed immutabile, privo nei secoli di qualsiasi influenza esterna ed in perenne rischio di annullamento a contatto con le diversità. Al contrario, la storia dimostra proprio che è senza lo scambio, il confronto e l'arricchimento reciproco che le società muoiono nella loro solitaria monoliticità. L'incontro con l'altro non è tolleranza, né estetizzante esotismo: è crescita per ciascuno di noi, è occasione per riscoprire davvero le proprie radici (a partire da uguaglianza, rispetto e solidarietà), non per difenderle nella loro teoria, ma per affermarle e rilanciarle con la pratica.

Pluripremiato in Italia e all'estero, Il vento fa il suo giro (sottotitolo: ...e ogni cosa prima o poi ritorna) ha avuto enormi difficoltà anche di distribuzione, che ne hanno fatto involontariamente un ottimo esempio di film "di nicchia" che si è trasformato in film di successo grazie al passaparola ed in barba alle regole ottuse del mercato italiano.

sabato 29 novembre 2008

Cuore di Vetro - W. Herzog (1976)

Germania rurale, 1800. Hias è un guardiano di vacche dotato di chiaroveggenza. Dai pascoli in altura osserva il mondo da sopra alle nuvole e nel silenzio dei luoghi immagina foschi presagi da fine del mondo, si vede risucchiato vorticosamente sempre più in basso, sempre più in basso,....ma. Ma è proprio da lì che, riacquistata la pace interiore e liberatosi di tutto ciò che lo appesantisce (tutto è inutile), l'uomo può cominciare il suo nuovo volo, leggero, e ricostruire così una nuova società.
I 70 minuti che seguono il lirico ed intenso esordio di Cuore di vetro sono un esempio di rapida discesa all'inferno degli uomini.
In un piccolo borgo depresso è appena morto il mastro-vetraio, che si è portato nella tomba anche il segreto per fabbricare quel vetro color rubino che assicurava gioia e tranquillità al paese. Il figlio del proprietario della vetreria, nonchè signore del luogo – un vecchio da 12 anni immobile su una sedia, capace però di una sarcastica risata da brividi – decide che vuole a tutti i costi scoprire quel segreto.
In un climax di follia, sottolineato da una fotografia tendente al rosso fino quasi all'estremo, il giovane fa rubare alla moglie (muta) del mastro-vetraio il divano dove l'uomo era solito sedersi, nella convinzione che al suo interno fosse nascosta una formula inesistente; poi uccide la propria serva, certo che fosse un miscuglio con il sangue umano a donare quel magnifico colore al vetro; infine dà fuoco di notte alla vetreria.
Tutt'intorno a lui si dispiega la follia dei paesani che si uccidono, ballano con i morti, si divertono sguaiatamente, consci del loro triste presente. Hias "vede" tutto questo prima che accada, ma nessuno lo ascolta, anzi, proprio perchè aveva predetto tante sventure viene alla fine accusato di essere lui a portare sfortuna e miseria in quel luogo e viene imprigionato, assieme al giovane signore, ormai sprofondato nella sua pazzia.
Hias però ha bisogno di "tornare a vedere", perciò scappa e torna sulla montagna. Lì, dopo aver combattuto ed ucciso gli ultimi fantasmi del vecchio mondo, ricomincia a "vedere" ed immagina uomini sperduti su un'isola rocciosa che, stanchi della loro limitata solitudine e spinti dalla più bella ed istintiva caratteristica umana – "il dono del dubbio" -, decidono di rischiare e di andare a conoscere come è fatto il mondo. Partono su una barca alla ricerca di una nuova terra, accompagnati dai canti e dai gabbiani.
Gli attori di questo film hanno recitato sotto ipnosi.
"Nelle acque il ricordo di Atlantide. Io vedo una nuova terra che nasce"

mercoledì 26 novembre 2008

Changeling - C. Eastwood (2008)


Come definire se non stupido il comportamento di una polizia che, ansiosa di donare tranquillità alla cittadinanza e soprattutto scrollarsi di dosso una pessima reputazione, riporta ad una donna, disperata per la scomparsa del suo unico figlio, un bambino diverso? Eppure l'ultimo film di Clint Eastwood è un dramma intenso e terribile, se al tragicomico sbaglio si aggiunge che i capi della polizia e gli incaricati dell'inchiesta decidono comunque di chiudere frettolosamente le indagini, negando fermamente l'errore e creando un muro attorno alla povera madre nel tentativo di farla passare per pazza ingrata, fino a farla rinchiudere in un manicomio.
Siamo a Los Angeles, nei mesi immediatamente precedenti al crollo delle borse del '29 e, in un'America tutta presa dal suo sogno economico, Christine è una bella ragazza madre (abbandonata dal proprio compagno, impaurito dalla responsabilità di un figlio) che deve conciliarsi fra la cura dell'adorato Walter ed il lavoro in un centralino di smistamento delle telefonate. Un giorno, rientrata a casa, scopre con orrore che il figlio non c'è. L'atteggiamento della LAPD (L.A. Police Departement) è immediatamente chiaro fin dalla prima telefonata, i pregiudizi sui "ragazzetti" che se ne vanno a bighellonare e sulle madri isteriche è subito evidente. Ma è dopo il ritrovamento del finto Walter che si scatena la barbarie in divisa e doppiopetto. Sbirri, capi della polizia, medici, politici, tutti concorrono a formare un cordone di (in)sicurezza intorno a Christine, fingendo di aiutarla ma in realtà facendola sprofondare sempre più in una follia indotta che non arriva alle estreme conseguenze dell'internamento perpetuo solo grazie all'aiuto di qualche singolo coraggioso ed a "fortunate" circostanze. E non sarà il poliziotto onesto che decide - forse più per "eccesso di schifo" verso i colleghi che per convinzione – di seguire una traccia diversa e riaprire l'indagine, né saranno i giudici severi verso i reali colpevoli di questa tragedia umana a farci cambiare opinione sulla drammaticità della condizione del singolo che, di fronte al potere, alla gerarchia, all'ordine costituito (come cantava De Andrè), rischia di trovarsi improvvisamente solo, spinto alla pazzia e poi rinchiuso, torturato, diviso dai propri cari per ragioni che, se nel film di Eastwood possono anche apparire insostenibili, lontane nel tempo, non riproponibili dovrebbero invece farci tutti riflettere per la loro attualità.
Quando, per motivi che oggi vanno per la maggiore (la sicurezza, la tutela del patrimonio, la difesa dell'ordine pubblico,...) si legittimano i detentori del potere (siano essi in doppiopetto o in divisa) ad usarlo a piacimento infischiandosene di cose (effettivamente fastidiose e di intralcio...) come i diritti umani e la giustizia uguale per tutti, ecco che il dramma descritto in questo Changeling (peraltro tratto da una storia vera ripescata negli archivi della LAPD) rischia di riproporsi quotidianamente dietro altre forme. E, ciò che è peggio, senza che si riesca ancora ad afferrare che dietro a tutti questi schermi di belle parole e nobili obiettivi, si nasconde generalmente sempre un solo scopo: la conservazione del potere nelle mani di chi ce l'ha. E non tutte le sentenze possono essere "riparatorie".
Film lungo ma mai noioso, bella fotografia chiaro-scuro, bravi gli attori, soprattutto un'ottima Angelina Jolie che riesce a mantenere il suo personaggio nei limiti senza strabordare (vista la storia, il rischio c'era). Eastwood affianca alle regole del cinema americano classico un paio di colpi ad effetto, "giocando" con il viso emaciato della Jolie, incorniciato da un luminosissimo rossetto.

lunedì 24 novembre 2008

Rocco e i suoi fratelli - L. Visconti (1960)

L'idea del contrasto emerge fin dalle primissime scene, come a voler da subito sottolineare quello che sarà uno dei princìpi cardine di tutto il film. Il contrasto fra l'idea di famiglia unita ed indissolubile che la madre Rosaria si porta con sé dalla Lucania fin su a Milano e la dura realtà di una società disgregata e disgregante, in cui i legami familiari sono destinati a spezzarsi, sacrificati sull'altare di una voglia di benessere e di libertà che possono portare all'emancipazione (se li si raggiunge per davvero) così come all'autodistruzione.
Appena scesi dal treno alla stazione di Milano, infatti, Simone, Rocco, Ciro, Luca e la madre si aspetterebbero di trovare Vincenzo, il fratello maggiore già trasferitosi al nord da tempo, con un lavoro, una fidanzata e la possibilità – questo almeno è ciò che spera Rosaria – di occuparsi di tutti quanti, ora che il padre è morto. Ma Vincenzo non c'è e poco dopo la panoramica sui volti stupiti della famiglia che dal bus guardano attoniti le luci delle vetrine di Milano anticipa già il secondo tema centrale (peraltro strettamente collegato al primo): quello delle conseguenze drammatiche dello sradicamento. E' solo per evitare ai figli di vivere una vita di sacrifici e di stenti che Rosaria si è decisa a partire per Milano: per non far ammazzare di fatica anche loro su quella terra ingrata, come aveva fatto loro padre, "che è morto mille volte prima di chiudere gli occhi".
C'è tutto il dramma dall'emigrazione in questo capolavoro di Visconti e rimbalza negli occhi dello spettatore con una violenza tale che non si può fare finta di nulla, né cedere ad alcuna estetizzante benevolenza paternalistica verso la famiglia di "terùn" che emigra in cerca di una vita e di una libertà nel grigio, freddo, ostile Nord.
Ciascuno dei fratelli imbocca poi la sua strada per la disperazione via via crescente di Rosaria che solo nelle prime battute (fondamentalmente solo nella scena del risveglio sotto la neve, mentre prepara la colazione per tutti, dà indicazioni sui vestiti da mettersi e si fa salutare dai figli uno ad uno sulla soglia di casa) sembra riuscire a mantenere il controllo della famiglia come vorrebbe. Vincenzo, per via che "ha combinato nu guaio", sposa la fidanzata nonostante l'opposizione delle rispettive madri; Simone, che è l'inquieto della famiglia, si lascia sedurre da Nadia, una giovane donna che "fa la vita" e lo convince ad intraprendere la carriera da boxeur ("un mio amico che fa la boxe ha una macchina lunga lunga che non finisce più"), prima di lasciarlo, finire in carcere ed innamorarsi di Rocco; quest'ultimo – nonostante la giovane età – è senza dubbio il più maturo e sensibile dei 5 fratelli ed è anche l'unico a riuscire a conservare quel senso di famiglia e di unità che ne fa la proiezione dei desideri della madre. Rocco vorrebbe tanto tornare al "paese", se solo le cose andassero meglio laggiù; Rocco è anche l'unico a difendere ostinatamente Simone davanti ad ogni sua nefandezza. "Noi non dobbiamo giudicarlo, noi dobbiamo solo difenderlo", dirà anche dopo che Simone ormai ridotto a relitto, a scarto della società, fallito, depresso ed alcolizzato, avrà confessato di aver ucciso la giovane e bella Nadia.
Altra vittima predestinata, Nadia è una prostituta che fa perdere la testa a Simone che, istigato da una sorta di Lucignolo di periferia ed accecato dalla gelosia, la violenta davanti agli occhi di Rocco, ovvero – dice la stessa Nadia - "la sola cosa bella che mi fosse capitata nella vita". Rocco infatti è l'unico a comprendere realmente la tristezza e la solitudine di Nadia, a cercare di stimolare il suo amor proprio, fino a convincerla a frequentare un corso per dattilografa per tirarsi fuori dalla strada. "Tu mi fai pena", le dice, "perchè tieni sempre l'aria di avere paura, mentre non bisogna aver paura, bisogna avere fiducia". Nadia pare sul punto di farcela, l'amore (per Rocco ma anche per sè) sembra spuntarla, ma ecco che la gelosia, la violenza, la bestialità umana intervengono a riportare tutto prepotentemente sui soliti binari. La difesa ad oltranza di Simone da parte di Rocco - che finisce per incolpare se stesso e Nadia della furia omicida di Simone - fanno crollare definitivamente la povera ragazza che oltre ad aver subito il dramma della violenza sessuale vedrà perdere di senso tutto quel poco di bene che aveva ricevuto, senza capire il perchè ("Quello che ieri era bello e giusto oggi diventa una colpa?") e dovrà tornare a fare "la vita", prima di essere uccisa in una sequenza giustamente divenuta mitica.



Sono troppi gli spunti che regala questo film, anche semplicemente attraverso una battuta, uno scambio di sguardi, una gestualità: l'accoglienza che le vecchiette milanesi riservano alla famiglia lucana che trasloca negli alloggi popolari racconta magistralmente un mondo intero di stereotipi ed arroganza dei "settentrionali" (di tutti i nord del mondo) verso i "meridionali" (di tutti i sud del mondo); la divisione delle lenticchie buone da quelle marce in cucina, metafora che Ciro riprende sul finale per convincere Rocco che Simone con la sua follia sta portando tutta la famiglia alla rovina e che bisogna separarsi da lui prima che sia troppo tardi.
È il finale però quello su cui vale la pena di soffermarsi. Ciro, il fratello più "sottotono", che lavora all'Alfa Romeo come operaio specializzato, dopo aver ottenuto il diploma alle scuole serali, ed è innamorato di una bella ragazza acqua e sapone che vuole sposare, passa la pausa pranzo assieme al piccolo Luca, sul quale tutti i fratelli finiscono prima o poi nel corso del film per far ricadere le proprie speranze o le proprie frustrazioni. Simone è appena stato arrestato per l'omicidio di Nadia, mentre Rocco, per pagare i debiti di Simone, si è cacciato in un vicolo cieco fatto di combattimenti di boxe in giro per tutta l'Europa, proprio lui che, al contrario di Simone, non amava boxare, perchè lo spaventava tutta la cattiveria che era capace di tirare fuori sul ring. In attesa del suono della campana che richiamerà gli operai al lavoro, Ciro cerca di trasmettere al piccolo Luca la speranza per una vita che sarà più giusta e più onesta, in cui tutti potranno vivere senza ammazzarsi di lavoro e liberi, ma senza dimenticarsi i propri doveri, come invece ha fatto Simone, che "per questo ha fatto la fine che ha fatto".
Una sorta di metafora che predica che con il lavoro, la rettitudine ed i sani princìpi (quindi non con i buoni sentimenti di Rocco, né con la sregolatezza di Simone) si costruirà un'Italia migliore, giusta e libera. Suona la sirena, Ciro torna al lavoro ed il piccolo Luca se ne va.
Da lontano, chiama l'unico fratello che gli è rimasto in casa e si raccomanda con lui: "torna a casa stasera!". Sulle pagine di tutti i giornali, attaccati ai muri, la foto di Rocco impegnato in una serie di combattimenti, prova finale dell'ultimo sacrificio fatto in nome di un'idea di famiglia che si trova improvvisamente fuori luogo.