giovedì 26 giugno 2008

Fuoco fatuo - L. Malle (1963)

Alain è un alcolista che ci ricade. O forse un Peter Pan che non accetta di "crescere" se questo vuol dire rassegnarsi ad una vita mediocre. Oppure, è una persona molto sola e inaridita dalla vita. Più probabilmente, tutte e tre le cose messe assieme.

Tratto da un romanzo di La Rochelle ambientato nel primo dopoguerra, Fuoco Fatuo – vincitore del Gran Premio della Giuria a Venezia 1963 – è una storia che lascia sgomenti. Non tanto per il finale, annunciato fin dalle prime battute, con tanto di inquadratura classica sulla pistola che diventerà protagonista della tragedia, quanto per la determinazione del protagonista, per la sua lucidità. Alain è stanco, stanco di tutto. Degli oggetti che lo circondano, dei rapporti superficiali, delle ipocrisie e della facilità e felicità apparente della vita di chi è più forte, più ricco, più affermato o semplicemente – ai suoi occhi – più rassegnato ad una vita borghese di lui. Alain rifiuta di invecchiare ("è difficile essere un uomo: bisognerebbe averne voglia"), ma forse ancor di più è ferito dall'aver sprecato i suoi anni migliori.
Alain non sa cosa cerca. Oppure sì: cerca un'avventura, una vita d'azione, dei rapporti intensi. Non si è reso conto di imboccare una strada senza uscita.
Ha passato la vita "ad aspettare le cose" così come le voleva lui, anziché a farle succedere. Poi, insoddisfatto di tutto, ha cominciato ad annegare nell'alcol la sua tristezza, finendo alcolizzato ancor prima di rendersene conto.

Alain ha paura, è terrorizzato dal non poter "mettere le mani su niente", dal non poter desiderare le donne: perchè sta invecchiando, perchè è senza soldi, perchè non si sente adatto a niente, perchè è un alcolizzato. E allora decide di farla finita, perchè non ne può più. Non sopporta più i suoi rimorsi, ma nemmeno di sentirsi sempre fuori posto.
Non accetta la gentile compassione che gli viene offerta dalle poche persone che ha vicino. Non gli basta, non lo soddisfa: il suo malessere è troppo profondo per trovare sollievo in questi palliativi borghesi. Alain aveva una sola voglia infinita: "volevo tanto essere amato che mi sembra di amare".
Tutto ciò di cui ha bisogno, ora, è la morte.

"Mi uccido perchè voi non mi avete amato, perchè io non vi ho amato. Mi uccido perchè i nostri rapporti furono deboli, e per rinforzarli lascerò su di voi una macchia indelebile"

martedì 24 giugno 2008

Les siestes grenadine - M: Ben Mahmoud (1999)

Les siestes grenadine (sieste-granatina) sono i primi giorni dell'autunno, quando fa ancora caldo ed i melograni maturano. Ed ancora i melograni sono oggetto di un'altra tradizione popolare che Ben Mahmoud ci offre: aprendone uno con le mani, per ogni chicco che cade in terra corrisponderà una lacrima versata.
È una riflessione scorrevole ed acuta questo lungometraggio del regista (e sceneggiatore) tunisino che non scade mai nel melodrammatico o nel banale, ma riesce ad essere lucido e coraggioso quanto basta per mettere in mostra e sbeffeggiare virtù e (soprattutto) vizi della società tunisina del finire del XX secolo. Il feroce razzismo ("la mamma del cretino è sempre incinta, dappertutto", si potrebbe dire), che relega i "negri" a macchiette puzzolenti o lavoratori umili. L'ottuso rigore con cui si seguono arcaiche e barbare tradizioni, appena mascherate – ma chi ci crede più? - da dettami religiosi. Il machismo. L'arrivismo e la falsità, la sete di denaro e la bella facciata da mantenere. Il tradimento privato e quello perpetrato dallo Stato nei confronti dei suoi cittadini, di cui finge di occuparsi amorevolmente, ma ai quali non lascia altra scelta che rischiare la vita di notte, a bordo di barchette, per tentare di raggiungere l'Italia. È la scelta che farà Chafik, giovane soldato per costrizione paterna, che diserta e parte, dopo aver fatto cadere un mucchio di semi aprendo un melograno. Non una buona partenza.
Soufiya è un'energica e vitale meticcia franco-tunisina, ma che si definisce "nera". Amante della danza africana e della cultura dell'Africa nera, in cui è cresciuta con il padre, soffre non solo per la mancanza della madre, ma anche per il razzismo, l'immobilismo e la falsità di cui si sente circondata e soffocata al momento del ritorno in Tunisia. Ma non perde occasione per farsene beffe ed approfitta di ogni circostanza per sfatare stantii luoghi comuni e remare controcorrente. Con quella verve e quel sorriso, d'altronde, niente sembra esserle precluso. Persino – ma questo il film non ce lo dice – un eventuale ricongiungimento (almeno temporaneo) dei genitori, davanti al suo coinvolgente saggio di danza finale, a Tunisi.
Wahid è un ricco possidente terriero tunisino, di ritorno dopo una lunga fuga nell'Africa occidentale assieme all'amata figlia Soufiya. Accecato da un amore bigotto nei suoi confronti, deciso ad impartirle un'educazione secondo i dettami religiosi e a fare di lei una "ragazza del Paese", egli non esita a rubarla alla madre francese, che tuttavia non demorderà e rimarrà sospesa come una minaccia per tutta la durata del film. Rientrato in patria, pronto alla nuova vita da educatore della figlia ed amante di una brillante – quanto odiosa, falsa e razzista – conduttrice di talk-show televisivi, Wahid – da uomo tutto sommato intelligente e colto – si accorgerà ben presto che anche le amicizie che appaiono più strette possono nascondere spietati interessi economici e che essere persone responsabili (e, si potrebbe aggiungere, persone di fede) non significa "belare col gregge".
Belli i dialoghi in più lingue (si alternano tunisino, francese, wolof e dialetti saheliani), belli i momenti di intimità: volutamente volgare ed ostentato quello quasi imposto a Wahid dall'amante, affascinante quello fra le due ragazze (Soufiya e Mabruka, la figlia del custode della proprietà di Wahid: ragazza tanto ignorante quanto imbevuta di autentica saggezza popolare), sensuale e malinconico quella fra Soufiya e Chafik.
È proprio il passaggio di quest'ultimo da Big-Jim in uniforme dell'esercito tunisino, spaventato da cosa penseranno di lui gli amici dopo che una ragazza l'ha preso in giro in diretta tv e sottomesso alle bieche volontà del padre a galante romanticone ed aspirante emigrante clandestino ("bruciatore della frontiera") a rappresentare forse il momento più problematico del film, quanto a solidità narrativa.
E tuttavia si deve gioire (e ben sperare per il futuro) del fatto che Ben Mahmoud ci dica che tante delle chiusure mentali e delle paranoie maschiliste e pseudo-religiose che strangolano buona parte delle società (mica solo quella tunisina) si poggiano in realtà su fondamenta così fragili e ridicole che basta davvero poco (ad esempio, una ragazza dal sorriso travolgente, il cui viso "ha illuminato la proprietà" [citazione di Io ballo da sola di Bertolucci?]) per sconvolgerle, abbatterle e cercare altri valori, più autentici. Purtroppo, in molti casi, con una fuga che non si sa bene dove porti.

lunedì 2 giugno 2008

Sono nato con la sabbia negli occhi - Mano Dayak (1996)


Mano Dayak è un abitante del deserto, come suo padre, suo nonno ed il nonno di suo nonno. È nato "tra l'anno della grande siccità e quello della grande invasione di cavallette" (il 1950).
Vive con la sua famiglia nel Ténéré, Niger, spostandosi di uadi (letto del fiume in secca, saltuariamente riempito in occasione delle rare piogge) in uadi, alla ricerca di condizioni climatiche che garantiscano la sopravvivenza loro e degli animali.
"Il deserto non si impara...si vive ed esso uccide quelli che non lo rispettano".
Il piccolo Mano cresce libero e coraggioso, fra massime di saggezza del padre e ardue prove fisiche di sopravvivenza per dimostrare agli altri e a se stesso di essere in grado di reggere gli urti più tremendi del deserto, di sapersi orientare fra le dune, di sopportare la sete, di evitare la collera dei djinns (spiriti del deserto) di distinguere le impronte dei cammelli sulla sabbia, per poter un giorno diventare il capo di una delle mitiche carovane del sale, interminabili file di cammelli che si spostano per il deserto trasportando i preziosi sacchi di sale.
I francesi, prima, ed i nigerini poi, però, cercano di sottrarre ai Tuareg, popolazione berbera e nomade, i loro usi e la loro cultura. Mano, per scappare alla scuola francese, deve fuggire nel deserto col padre. Rientrato, viene comunque costretto a frequentare.
"Non sono mica i francesi che insegneranno ai Tuareg a trovare un pozzo, ad orientarsi con le stelle" "Non abbiamo più il diritto di parlare la nostra lingua. A chi viene sorpreso a pronunciare una parola in tamasheq tocca il berretto d'asino; una croce di legno che si deve portare tutta la giornata, appesa attorno al collo con un laccio. Questa croce è per noi un vero affronto. È come se ci si punisse di essere nati Tuareg".
Nel 1960 il Niger ottiene la sua indipendenza, ma i Tuareg ne sono esclusi: le potenze coloniali e la Francia spezzettano i paesi saheliani tracciando confini geometrici che impediscono ai nomadi di percorrere le loro solite rotte senza incappare in controlli delle nuove "autorità".
Mano nel frattempo si affeziona alla scuola ed al suo primo maestro, cresce e si sposta in un'altra scuola, vicino ad Agadez.
La situazione per i Tuareg peggiora notevolmente con l'indipendenza di Mali e Niger: in entrambi i Paesi, le popolazioni nomadi vengono perseguitate: i soldati bruciano gli accampamenti, avvelenano i pozzi, sterminano il bestiame. Mano perde il padre, si trasferisce a Niamey, la capitale del Niger, è costretto al servizio militare.
Nei primi anni '70 si trasferisce a Parigi, poi negli Stati Uniti, poi di nuovo a Parigi per studiare e vive sulla propria pelle la frustrazione di non riuscire a fare niente per la propria gente, nonostante l'impegno profuso.
Americani e francesi sembrano essere coinvolti soltanto dagli aspetti più "folkloristici" del popolo Tuareg:
"è vero che le donne Tuareg sono bionde con gli occhi blu? Quanto costa un cammello? Come si dice cammello in tamasheq?".
La condizione dei Tuareg continua a peggiorare: le siccità sono sempre più frequenti e distruttive, si diffondono malattie da carenze alimentari. Nessun intervento viene messo in atto. Gli uomini emigrano in Algeria o Libia, nelle baraccopoli delle grandi città, a mendicare un lavoro manuale che fino a poco prima il loro orgoglio Tuareg gli avrebbe impedito di fare.
Tornato in Niger, Mano decide di aprire un'agenzia di viaggi, per attirare turisti nel deserto ed utilizzare il denaro per migliorare le condizioni dei Tuareg. Sfruttando anche la sua capacità di intessere buoni rapporti, diviene amico di piloti e manager della Parigi-Dakar, mitica corsa nel deserto, che Mano cerca di sfruttare per dare visibilità alle sofferenze del suo popolo.
Il 1990 è un anno decisivo: nel maggio alcuni giovani Tuareg, disperati per la miseria che loro e le loro famiglie vivevano nei campi profughi in perenne attesa di aiuti, si mobilitano, nella regione di Tchin-Tabaraden, ottenendo per tutta risposta la feroce violenza dell'esercito che, in poche ore, procede alle peggiori uccisioni, torture, umiliazioni.
Questo fatto di inaudita gravità e violenza fa prendere coscienza a molti Tuareg che non vi sarebbe mai stato spazio per democrazia e giustizia.
Alcuni decidono di prendere le armi e rinchiudersi nella "fortezza" naturale che è il massiccio dell'Air. Altri, nonostante tutto, continuano a credere in una soluzione pacifica. Si tratta di una spaccatura definitiva e decisiva per questo popolo.
Mano, in Francia, trova sostegno ed appoggio alla causa perfino dalla signora Mitterand, ma nemmeno questo ebbe alcuna importanza: l'esercito del Niger continuava ad arrestare anche donne e bambini, mentre la ribellione continuava a dividersi, sempre più su basi tribali.
Dopo le elezioni del 1993 in Niger, le delegazioni del nuovo governo e dei ribelli (guidata da Mano Dayak, ma molto divisa al suo interno) si incontrano a Parigi per un accordo di pace. L'accordo viene firmato ma un gruppo di resistenti Tuareg lo rifiuta.
Nel 1994, a Ouagadougou, si tiene l'ennesimo incontro, da molti considerato come l'ultima spiaggia. I negoziati sono lunghi ed estenuanti, fino a che, il 9 ottobre 1994, dopo 3 anni di terribile guerra, viene firmata la pace fra la Repubblica del Niger ed il Coordinamento della Resistenza Armata (CRA).
"Quel giorno cominciò il lavoro più difficile, ma anche il più motivante: costruire la pace...Bisognerà lottare a lungo per creare scuole, dispensari, unità sanitarie mobili, progetti di artigianato, turismo, per sviluppare le nostre risorse e vivere di esse liberamente".
"Quando dall'alto della mia roccia, io guardo questo deserto, che ha visto viaggiare mio padre e prima di lui il padre di mio padre e tutti i padri dei miei fratelli tuareg, io so che da esso noi prenderemo la forza e la saggezza necessarie per costruire il mondo che sogniamo per le nostre famiglie e per i nostri figli".
Gli accordi salutati con così grande entusiasmo rimasero tuttavia lettera morta. Mano Dayak morì nell'esplosione dell'aereo che avrebbe dovuto portarlo dal premier del Niger, a discutere dell'applicazione degli accordi di pace, il 15 dicembre 1995.