venerdì 20 novembre 2009

A woman under the influence - J. Cassavetes (1974)

Litigi, crollo, dramma sfiorato e (forse) rinascita di una coppia piccolo-borghese degli anni '70 americani.
Mabel (G. Rowlands) e Nick Longhetti (P. Falk) hanno 3 figli e vivono in una grande casa, sempre frequentata da parenti, operai colleghi di lui, amici dei bambini. Ed è proprio in compagnia che la mente di Mabel comincia a dare i numeri. Lasciata spesso sola dal marito, costretto a turni di lavoro massacranti, l'insicura Mabel è sempre ossessionata, quando è assieme ad altri, dalla voglia di far star bene tutti, di far divertire. Ma i suoi modi esagerati non sono apprezzati da nessuno e la donna finisce col farsi una reputazione da matta, da malata. Solo Nick, pur con rudezza, la comprende e non smette mai di amarla, nonostante le stranezze della moglie comincino via via a farsi più gravi.
Le crisi di isterismo e le paranoie aumentano, Mabel è circondata dall'incomprensione e dal disprezzo, non riesce ad uscire dal dramma della sua "solitudine in mezzo alla gente".
Convinto da sua madre e dal medico di famiglia, Nick la fa rinchiudere in un ospedale psichiatrico.

Il giorno in cui Mabel torna a casa, dopo 6 mesi, Nick organizza una grande festa, invitando decine di amici, "perchè gli amici vanno sempre bene". Sua madre però lo convince a fare uscire tutti di casa, affinché ad accogliere la Mabel guarita siano solo i familiari stretti. Ma è ancora troppo. Inevitabilmente sotto pressione Mabel crolla, ha una nuova crisi, anche più grave delle precedenti. Chiede di restare sola con Nick, avrebbe voglia di fare l'amore con lui. I parenti se ne vanno, ma lei ormai pare irrimediabilmente persa.
In una drammatica scena conclusiva si sfiora la tragedia. Marito e moglie arrivano all'apice, Nick schiaffeggia Mabel, che aveva tentato di tagliarsi le vene con una lametta. Poi cerca di allontanare i bambini che invece, ostinatamente, scappano sempre dalla camera per andare dalla madre insanguinata, per starle vicino. Perchè, dopo sei mesi, vogliono che sia lei a metterli a letto e rimboccare loro le coperte. Mabel lo fa. E poi si chiude con Nick in una stanza. Lontani finalmente dal mondo, alla larga da quel telefono che continua a squillare. Salvi, per ora.

Candidato a 2 premi Oscar, certo avrebbe meritato quello per la migliore attrice, una G. Rowlands grandissima, superba. Cinema quasi d'improvvisazione, con la mdp sempre molto vicina ai volti tesi, a tratti sfigurati, dei protagonisti.

mercoledì 18 novembre 2009

Los Abrazos Rotos - P. Almodovar (2009)

Un regista di nome Mateo Blanco, dopo un gravissimo incidente d'auto in cui perde l'amante e l'uso degli occhi, si ricicla in scrittore, assume un altro nome (Harry Caine) e pare tutto sommato passarsela non troppo male finchè nella sua vita non (ri)compare - anch'egli nascosto dietro ad uno pseudonimo - il figlio di un uomo d'affari appena deceduto.
Il ragazzo, che si fa chiamare Ray-X, propone a Harry di scrivere a quattro mani la sceneggiatura di un film autobiografico che poi lui dirigerà. Harry, pur cieco, riconosce subito chi ha di fronte e, sconvolto, rifiuta.
Da qui, attraverso una serie di lunghissimi flash-back, si scopre la tragica storia di Mateo, che ora vive circondato dall'affetto della sua agente Judit, che se ne prende amorevolmente cura, assieme al figlio Diego.
Molti anni prima Mateo, durante le riprese di un film, si era innamorato follemente di Lena, aspirante attrice, nonché amante del ricco produttore del film stesso, Ernesto Martel, il padre di Ray-X. L'amore tra i due si riempie subito di passione e per la donna la convivenza con Ernesto diventa insoportabile. Dal canto suo, il vecchio fa spiare con una videocamera la donna dal figlio (omosessuale, succube del padre) e, grazie al formidabile aiuto di una "lettrice di labbra", riesce a capire dalle riprese del giovane Ray-X quello che sta succedendo. Quando si rende conto che la bella Lena in realtà prova ribrezzo per lui e lo tradisce col regista, si fa pericoloso, fino a scaraventarla giù dalle scale di casa e romperle una gamba.
Portate a termine comunque le riprese del film, Lena e Mateo scappano a Lanzarote, dove il regista si nasconde dietro il falso nome di Harry Caine.
Intanto, incapace di accettare l'abbandono, Ernesto Martel, con la collaborazione retribuita di Judit (gelosa di Mateo) e del montatore, rovina il film, scegliendo le scene peggiori e decretando in questo modo il colossale fallimento della pellicola. Rintracciati i due amanti, poi, Ernesto invia il figlio a Lanzarote.
Nel frattempo, appreso del flop del film (ma ignaro dei motivi che ne sono alla base), Mateo decide di rientrare a Madrid. Lungo la strada, un gravissimo incidente uccide Lena e causa la cecità di Mateo. Anzi, di Harry, perchè da quando si risveglia in ospedale il regista "uccide" Mateo e si trasforma nel suo pseudonimo.
Dopo molti anni, la ricomparsa di Ray-X (deciso a riappropriarsi della propria vita dopo la morte del padre) porterà a galla tutte le verità. Sul film, la morte di Lena e tanto altro.

Intricato come una telenovela, pieno di (troppi) "colpi di scena" - più aspiranti tali che altro - Los Abrazos Rotos lascia l'impressione di un Almodovar decisamente giù di tono. E se la regia conserva ancora spunti tutto sommato interessanti (bellissime le riprese di Lanzarote, interessante la scelta di alcune inquadrature), ciò che lascia perplessi è la scrittura. Non tanto per una storia arzigogolata (normale per Almodovar), quanto per le soluzioni che sono svelate sempre nel modo più semplice (flash-back, confessione, spiegazioni non richieste...) e per un senso generale di pesantezza e déjà-vu che non appartiene al regista spagnolo, maestro nello sdrammatizzare e nel sorprendere. Nel commuovere, sì, ma non per compassione, casomai per empatia, strappando sorrisi. Qui invece, i dialoghi brillanti possono forse essere ridotti a due: Mateo ed il figlio di Judit che abbozzano un'esilarante storia di vampiri e la scena finale, che è in realtà un pezzo del film che Mateo aveva diretto e che era stato originariamente stravolto e rovinato. Per il resto Los abrazos rotos stanca, appare forzato, a tratti annoia.

domenica 1 novembre 2009

The magnificent Ambersons - O. Welles (1942)

Nel Sud degli Stati Uniti, a cavallo fraXIX e XX secolo una ricca e potente famiglia - gli Amberson appunto - vive in un castello circondata dall'invidia e dall'odio di tutti i compaesani. Il piccolo George, particolarmente, racchiude nei suoi comportamenti spocchiosi tutta l'arroganza e la mania di grandezza della famiglia.

Di ritorno in città dopo alcuni anni di collegio, George conosce Lucy e se ne innamora. Lucy è figlia di un abile industriale (fra gli inventori dell'automobile) di nome Eugene, che da giovane era il fidanzato della madre di George, Isabel, dalla quale aveva dovuto allontanarsi per futili motivi legati alla rigida etichetta della famiglia Amberson.
Dopo la morte del padre di George - che Isabel aveva dovuto sposare pur amando Eugene - quest'ultimo riprende a fare la corte alla sua vecchia fiamma. Appresa la novità dalla zia Fanny (anch'essa segretamente - e dolorosamente perchè invano - innamorata di Eugene), George va su tutte le furie, in quanto questo amore - e soprattutto il fatto che in città se ne chiacchieri molto - intacca pesantemente, a suo dire, la reputazione della famiglia.
Disposto anche a rovinare il suo rapporto d'amore con Lucy pur di tutelare l'onorabilità degli Amberson, che gli era del resto stata inculcata fin da piccolo, George offende l'amante della madre (nonché quasi-suocero) Eugene, scacciandolo di casa in malo modo. Quindi, madre e figlio partono per un viaggio di alcuni anni in giro per il mondo.
Al loro rientro, dettato soprattutto dalle cattive condizioni di salute di Isabel, la famiglia è allo sfascio, senza un soldo per via di alcuni cattivi investimenti. In un ultimo ottuso gesto di disprezzo, gli Amberson negano a Eugene la possibilità di vedere Isabel prima che muoia.
Rimasto solo con la zia Fanny, senza un soldo, George - che non aveva mai voluto lavorare in vita sua - cerca di farsi assumere come operaio di bassissimo livello pur di guadagnare un pò di denaro. Investito da un'automobile, viene ricoverato in ospedale.
Lì dentro, dopo tutti questi sconvolgimenti di vita, finirà probabilmente per rendersi conto di molte cose e chiederà il perdono di Eugene, che prenderà il giovane sotto la sua protezione come ultimo atto di amore verso Isabel.

Tratto dal libro The Magnificent Ambersons (Booth Tarkington), il secondo lavoro di Welles dopo Citizen Kane è l'affresco di una nobile famiglia presa in contropiede dal passaggio da una società statica e quasi immutabile ad una molto più industrializzata e dinamica, incapace di adattarvisi e quindi inesorabilmente destinata a scomparire.
L'invenzione dell'automobile - di cui Eugene, vero personaggio positivo del film, è un capostipite - ne rappresenta un pò la metafora. Ed illuminante a questo proposito è una discussione a tavola fra George e lo stesso Eugene, secondo cui non è dato sapersi se l'auto migliorerà il mondo, ma certo lo rivoluzionerà profondamente, fin nel modo di pensare. Chi si ferma è perduto, sembra dirci Welles. Chi cerca di resistere ai cambiamenti finirà per essere travolto.


Scenografia incredibilmente ricca e curata: il castello degli Amberson spaventa ed inquieta.
Largo uso del piano sequenza. Titoli di coda letti dallo stesso Welles, voce narrante dell'intera storia.

Il film fu mutilato dalla casa di produzione dopo le critiche negative ricevute in occasione delle prime proiezioni di prova. Pare soprattutto che il finale piuttosto consolatorio sia un ribaltamento dell'originale, molto più pessimista.

domenica 4 ottobre 2009

Matador - P. Almodovar (1986)

Diego Montes (N. Martinez) è un affascinante torero che è stato costretto a ritirarsi a seguito di un'incornata che lo ha reso zoppo, ma che non è riuscito a perdere l'istinto di uccidere e l'amore per la morte. Insegna ad un gruppo di giovani aspiranti toreri, fra cui Angel (A. Banderas), giovane oppresso da una madre fanatica religiosa e frustrato sessualmente, che ha una vera e propria ossessione per il carismatico maestro, tanto da vederne gli atti ed ascoltarne i discorsi da lontano. Quando Diego insinua dei dubbi sulla sua eterosessualità, Angel tenta maldestramente di violentare la fidanzata dello stesso Diego, Eva, vicina di casa di Angel, la quale deciderà di non denunciarlo nemmeno, in quanto il ragazzo era venuto sulle sue gambe.
Ancor più frustrato da questa incapacità di fare del male, nella sua folle volontà di vestire invece i panni dello spietato maestro, Angel si autoaccusa davanti alla polizia anche di 4 omicidi, di cui due commessi proprio dal maestro, che aveva poi seppellito i cadaveri nel suo giardino.
L'avvocatessa che difende Angel, Maria, (A. Serna) è a sua volta ossessionata da Diego, al punto da sedurre gli uomini ed ucciderli, nel momento dell'orgasmo, conficcandogli un fermacapelli nell'incavo fra le scapole, come Diego spiega si deve fare con i tori.
Fulminato dal fascino irresistibile di questa donna perversa, Diego abbandona la fidanzata e fugge con Maria. Durante un'eclissi solare che tinge tutto di rosso (colore che compare pressochè in tutte le inquadrature), i due amanti giocheranno finalmente il loro gioco d'amore. E di morte.

5^ film di Almodovar, misto fra thriller e melodramma a tratti grottesco, in cui - oltre a quello della morte e dell'ossessione per la morte, intesa come momento liberatorio, "orgasmico", sublime, altamente carico di eros - compaiono altri temi cari al regista, come la religione fanatica ed oppressiva e l'omosessualità (palese o latente), altre possibili fonti di paranoie e frustrazioni.


Su tutto, dappertutto, il colore rosso, simbolo della passione, ma anche dell'accecamento e della follia.

giovedì 17 settembre 2009

L'amore e basta - S. Consiglio (2009)

L'amore e basta di Consiglio è una serie di 9 interviste ad altrettante coppie (o famiglie, a seconda della definizione che gli intervistati preferiscono darsi) omosessuali, in Italia e all'estero. Con un prologo, la lettura di un brano di Aldo Nove da parte di L. Zingaretti. Ed una serie di brevi intervalli a fumetti.
E' dunque un documentario, o meglio un documento, in cui tutto è incentrato sulle voci, i volti, i movimenti, insomma sulla normalità dei protagonisti. Che, privi di campo alle spalle - davanti a semplici muri o finestre o prati - si raccontano e rispondono alle domande del regista. E' un documento sull'amore e su come queste 9 coppie vivono la loro storia d'amore. Non è, non vuole essere una denuncia, nè un confronto sulle diverse legislazioni nei vari Paesi europei (anche se la coppia spagnola è felice della sua "regolarità"), nè una presa di posizione politica sugli aspetti più delicati, dall'adozione al matrimonio fra persone dello stesso sesso. Anzi, il lavoro di Consiglio mantiene sempre un atteggiamento molto prudente, attento a sottolineare le diverse sfaccettature ed a fare emergere vari e contrapposti punti di vista su ogni argomento.
E questo, che avrebbe potuto finire per far perdere un pò di vigore al documento, restituisce invece per una volta un'immagine molto meno "monolitica" del cosiddetto mondo omossessuale, all'interno del quale - come è ovvio e normale, ma generalmente dimenticato - convivono persone, piccole-grandi persone, ciascuna con le sue idee, difficoltà e pregi.
Le - sacrosante - battaglie aspre per la conquista di diritti civili (o, nella triste attualità italiana, per il semplice diritto all'esistenza) sono qui lasciate in secondo piano per entrare molto più nel privato di queste coppie/famiglie, non a caso intervistate tutte in ambienti domestici o comunque familiari. L'amore e basta è un lavoro delicato e profondo che, proprio per questo suo non cercare la sensazione, probabilmente non riceverà i favori del pubblico e della distribuzione. Ma sarebbe da mostrare nelle scuole, ai ragazzini, affinchè s'abituino a vedere le persone, ad ascoltare e capire la complessità e l'individualità di ciascuno, prima di (ispirandoci ad Aldo Nove) imparare le parole e le categorie generalizzanti, le allusioni offensive, che preparano il campo alla vergogna, all'isolamento, all'emarginazione, al rifiuto.

Presentato a Venezia 2009

sabato 5 settembre 2009

La paura - P. Delbono (2009)

Girato interamente con un telefono cellulare, questo film di Delbono si fa ammirare più che altro - oltre che per la "novità" - per il tentativo di donare serietà ad un mezzo generalmente considerato frivolo ed utilizzato per catturare immagini superficiali, buone giusto per farsi due risate con gli amici quando si riguardano.
Delbono riprende dunque scene di vita vera, che accadono davanti ai suoi occhi o nel "magico" schermo televisivo, dove il tossico da tubo catodico può trovare davvero di tutto, dai consigli su come far dimagrire i propri bambini obesi, alle storie strappalacrime dei cani e dei loro padroni, al più semplice, sguaiato e becero divertimento.
E' da lì, da quello strumento di omologazione, controllo sociale e rimbambimento collettivo che la stragrande maggioranza della popolazione italiana trae le sue "informazioni" ed orienta (eterodiretta) i propri comportamenti. Mentre fuori, la realtà "vera" ci parla di ben altro: dai funerali per il ragazzo di colore di nome Abdul ucciso per aver rubato una scatola di biscotti, disertati da autorità e forze (anche) di sinistra, a campi dove i rom vengono tenuti a marcire e fare una vita da cani. Il telefonino di Delbono si sofferma su queste storie, con il chiaro intento di provocare, di stimolare una reazione, che già sappiamo che non ci sarà. Tutti troppo abituati a rinchiudersi in casa, ad alimentare la propria paura ed il proprio spegnimento del cervello con il prossimo, idiota, varietà. E a chi vuole sapere, a chi si indigna, non rimane altro che una profonda frustrazione, un senso di impotenza, di incapacità di comunicare con gli altri, se non urlando invettive, per sfogarsi.

Se l'idea e le intenzioni erano ottime, il risutato tuttavia non lo è altrettanto. Certi momenti sono davvero di una pesantezza mortale, da "sperimentalismo", che non c'entra poi granchè con quello che avrebbe potuto essere un originale film di denuncia. E poi pare un pò troppo semplicistico accostare sic et simpliciter l'estrema superficialità (la non voglia di ragionare) contemporanea e le tragedie umane che la circondano. Ciò che emerge è un sistema, una società del tutto priva di speranze, in cui fra questi due mondi è impossibile comunicare, se non in maniera violenta, di pancia. E dove i "beati" sono i sordi e folli, che hanno passato 40 anni in un manicomio, come Bobo, che può non sentire e conservare, così, una purezza che nel mondo non esiste più.
Una risposta un pò troppo semplice. Da telefonino.

Presentato a Locarno

Piazzati - G. Diritti (2009)


Dopo il successo de Il vento fa il suo giro - ed in attesa de L'uomo che verrà, ormai di prossima uscita - Diritti presenta questo documentario di un'ora scarsa ambientato ancora nelle valli occitane. La storia è una di quelle assolutamente escluse dal dibattito pubblico, dimenticate. Sarà per la riservatezza tipicamente "montanara", o forse per quella tendenza tipicamente italiana a rimuovere tutto ciò che appartiene al nostro (recente!) passato di popolo di miseri emigranti, soprattutto molto miseri.
Protagonisti sono una serie di anziani, ma lucidi, uomini e donne che raccontano davanti alla mdp il loro trascorso da bambini "in affitto", quando - per alleviare la famiglia (che così doveva sfamare una bocca in meno) ed avere la certezza di un pasto caldo o di qualche piccolo regalo - si trasferivano a lavorare nelle ricche valli francese, subito al di là del confine. Badare le vacche, raccogliere il grano, aiutare nelle faccende domestiche. Bambini e bambine addirittura venivano offerti dai genitori in occasione di una fiera in cui le famiglie francesi venivano e si sceglievano chi più li aggradava, per poi procedere all'affitto. In altri casi, si doveva attraversare clandestinamente il confine e cercare lavoro direttamente sul posto. Perchè nelle confinanti valli francesi il lavoro non mancava e, come è normale, chi "di qua" non aveva di che vivere, cercava di andare "di là", anche a costo di grandi sacrifici e di una vita di stenti. Dice Diritti che sulla cima di un monte al confine fra Italia e Francia una lapide ricorda alcuni bambini morti- sorpresi da una nevicata fuori stagione - durante lo sconfinamento.
Tanti i temi che emergono dal documentario: il senso del sacrificio per sè e la propria famiglia, la sofferenza della decisione di allontanarsi dai propri cari. Inevitabile il paragone con l'oggi, quando sono le campagne italiane ad attirare masse di giovani poveri che vengono da un "altrove". E quando si fa tutto un gran parlare di famiglia, confondendo però l'amore per i propri cari (ed i sacrifici che ne derivano) con il rispetto di insulse regole religiose. Come al solito, la sostanza con l'apparenza. Diritti restituisce un pò di giustizia alla prima.

mercoledì 2 settembre 2009

Ogro - G. Pontecorvo (1979)

Durante la dittatura franchista l'ETA decise (nel 1973) di eliminare Luis Carrero Blanco, consigliere di Franco e poi capo del governo su nomina del "Caudillo" negli ultimi anni della dittatura.
Incaricati dell'attentato 4 militanti baschi che, trasferitisi a Madrid da Bilbao, organizzano un piano particolareggiato che prevedeva, all'inizio, il rapimento dell'alto funzionario, ma che si è dovuto trasformare poi in omicidio dopo la nomina a capo del governo di Blanco e conseguente aumento delle misure di sicurezza intorno alla sua persona. Dopo mesi di discussioni fra i 4 ed una preparazione faticosa, l'attentato avrà luogo e raggiungerà il suo scopo.
Dopo la caduta del regime e la (lunga) transizione democratica spagnola, scoppiarono le divisioni all'interno dell'ETA fra chi voleva l'abbandono della lotta armata a vantaggio di una partecipazione alla vita democratica, secondo le regole di questa, e chi, del tutto sfiduciato, continuava (e continua ancora) a credere nella violenza e negli attentati come unica soluzione. Anche nel piccolo gruppo protagonista di questo film si sviluppano queste dinamiche e le strade degli amici e compagni inseparabili, invevitabilmente, finiscono per dividersi in maniera lacerante.

Ogro è un film che ha avuto, per ammissione stessa di chi ci ha lavorato e del regista, una gestazione particolarmente complicata, durata circa 4 anni. Questo non solo per le incertezze di Pontecorvo e per il particolare periodo storico (coincidente fra l'altro con il rapimento Moro), ma anche per il fatto che si partiva da un libro contenente interviste agli autori dell'omicidio.
Dunque, il rischio avvertito dagli autori era quello di schierarsi troppo nettamente dalla parte dell'ETA, con le ovvie conseguenze in termini di credibilità del film e successiva distribuzione della pellicola. Ciò che ne risulta, dunque, è un lavoro un pò "ingessato", che alterna momenti di azione e grande tensione (come i minuti precedenti l'attentato) a dialoghi che a tratti appaiono davvero inseriti a forza, didascalici. Finalizzati in sostanza a sottolineare la posizione del regista, che è poi quella impersonata da G.M. Volontè, organizzatore del piano. Cioè a dire, la posizione che ritiene la violenza come estremo mezzo per liberarsi da una dittatura, ma assolutamente da limitare anche in quelle occasioni e poi da accantonare una volta ottenuta la liberazione. C'è chi, da parte basca, ha accusato per questo Pontecorvo di ambiguità.


Tutto sommato, Ogro è comunque ben diretto, la storia è messa in scena in maniera (a tratti) avvincente ed è comunque interessante il tentativo di Pontecorvo di dare sempre voce agli "altri", anche quando isolati ed incomprensibili. I dialoghi, per quanto come detto un pò "da manuale", contengono anche spunti interessanti, non tanto quando provengono da Izarra (Volonté), sorta di "terrorista-accettabile", comprensibile, ragionevole, quanto da Txabi, il compagno intransigente, problematico, con una compagna (ed una figlia), ma che sacrifica tutto, anche se stesso, alla causa che vede come unica strada percorribile: quella del "tutto e subito". Perchè non tutti riescono a vederla come Izarra, che sottolinea invece il valore della pazienza e del testardo lavoro di convincimento quotidiano delle masse. Per Txabi ciò non è possibile: preso dalla sua angoscia di raggiungere l'obiettivo, finisce per vedere davanti a sè un muro enorme, fatto del potere ma anche - ciò che è peggio - dall'indifferenza della gente che non si cura di quello che capita attorno alla propria piccola vita, fatta di lavoro e domeniche allo stadio. E chissenefrega della mancanza di libertà, chissenefrega dei prigionieri politici, chissenefrega anche dell'ETA.
Tutto questo a Txabi non va giù. E, anche se deciderà di stare fino all'ultimo assieme ai suoi compagni, di portare a termine la missione, ciò che verrà dopo lo farà restare solo, tra i suoi fantasmi di rivoluzioni fallite e traditori.

T: Pensavo a dopo ancora
I: A dopo quando?
T: A quando cadrà il fascismo, perchè dovrà pure cadere prima o poi! Ma la gente? Cambierà la gente, dopo?
I: Pensa un pò a tutti quelli che hanno pensato che la loro rivoluzione fosse l'ultima...Certo che cambierà. Lentamente, ma cambierà.

Bon voyage - J.P. Rappeneau (2003)

Francia, Parigi, 1940. L'occupazione dei tedeschi avanza ed il governo intero, assieme alla popolazione, deve scappare dalla capitale e rifugiarsi a Bordeaux. Qui, viene deciso di affidare il comando del governo al maresciallo Pétain. La Francia sarà spaccata in due: il nord invaso dai nazisti; la Repubblica di Vichy a Sud. Spinti dall'avanzata tedesca- che appare davvero inarrestabile - e dalla voglia di tornare alla normalità della popolazione, abituata agli agi e non certo alla vita da perenni sfollati, i ministri sceglieranno la via dell'armistizio con i tedeschi ed il nuovo governo di Vichy collaborerà con la Germania di Hitler. Il generale De Gaulle, nel frattempo, riuscirà a riparare a Londra, da dove organizzerà la resistenza.

Su queste basi storiche ben note si innestano le storie dei protagonisti di questo film. Frédéric, aspirante scrittore, innamorato di una giovane e bella attrice, Viviane. Imprigionato a causa di un omicidio commesso da lei, Frédéric evaderà di prigione proprio durante l'occupazione di Parigi. Viviane intanto alloggia come tutti all'Hotel Splendid di Bordeaux, ma riesce sempre a garantirsi alcuni privilegi grazie all'amore che prova nei suoi confronti il ministro dell'Interno (G. Depardieu), a cui lei si aggrappa - come pare disposta ad aggrapparsi a tutti i potenti di turno - pur di mantenere la sua reputazione di artista affermata.
Nello stesso hotel, trasformato in vero e proprio rifugio, si trovano anche una spia dei tedeschi travestito da giornalista sulle tracce di Viviane, un ladruncolo simpatico e in gamba che era evaso di prigione assieme a Frédéric, Camille, assistente onesta e seria di un professore universitario in possesso di un certo quantitativo di acqua pesante, in grado di servire alla fabbricazione di un ordigno nucleare e dunque da preservare a tutti i costi dalle brame dei tedeschi. Con la sua caparbietà e l'aiuto decisivo di Frédéric, la giovane Camille riuscirà a far imbarcare il professore ed il suo carico alla volta dell'Inghilterra. E a vincere lentamente anche l'affetto di Frédéric, che riuscirà a togliersi di dosso l'ingombrante ed accecante figura di Viviane.
Trama intricata e ritmo sostenuto per questo lavoro di Rappeneau, con le vicende personali ed amorose dei protagonisti - che si rincorrono, si perdono, si rirovano casualmente - che si incrociano e crescono con l'evolversi della stoira e, infine, ne decidono le sorti.
Al di là del contesto storico, comunque, ciò che più piace di Bon Voyage è proprio il riuscitissimo approfondimento psicologico dei personaggi, credibili, mai macchiette, pieni di sfaccettature, in grado di imprimere cambi di rotta alla propria vita e, soprattutto, di crescere e mutare nel corso del tempo.
Film curato e piacevole.

lunedì 31 agosto 2009

The millionaire - D. Boyle (2008)

Sconcerta, sinceramente, pensare al successo ottenuto da questo mediocrissimo The Millioniare di Danny Boyle agli ultimi Oscar. E se il premio per il miglior film stupisce, le altre 7 statuette (a cominciare da quella per la sceneggiatura non originale) addirittura infastidiscono.

La trama è raccontata quasi interamente facendo ricorso a numerosi flash-back. Infatti il protagonista, Jamal, è messo sotto torchio dalla violenta polizia indiana, con l'accusa (sollevata dallo stesso conduttore invidioso) di aver barato a "Chi vuol essere milionario?". Per giustificare la correttezza di tutte le risposte date (gliene manca solo una per vincere il montepremi finale e la trasmisisone - interrotta per mancanza di tempo - ripartirà da lì il giorno successivo), il giovane Jamal ripercorre tutti i passaggi della propria vita che in qualche modo hanno contribuito a portarlo a conoscenza, casualmente, delle risposte a quei quesiti.
Apprendiamo così che lui e Salim sono due fratelli che vivono in una lurida baraccopoli di Mumbay. Crescono con i miti di Bollywood nel cuore e con una voglia di riscatto che li porterà a scelte differenti. Il mite Jamal seguirà la strada dell'onestà e si darà da fare con lavori umili, mentre lo spietato Salim diventerà, angheria dopo angheria, il cagnolino da guardia di un boss della baraccopoli, proprietario di tutti i terreni e le costruzioni sorte come funghi grazie al boom economico indiano del fine secolo XX. Boom economico che, come altrove, ha finito spesso per lasciarsi dietro ancor più disperazione ed ancor più miseria. Oltre ad un divario sociale che fa dell'India contemporanea al tempo stesso una delle potenze emergenti ed una potenziale polveriera.


Latika è una bambina della baraccopoli, che cresce assieme ai due fratelli e finisce per innamorarsi, ricambiata, di Jamal. Fra di loro però si mette lo spietato fratello, che prima abusa di lei e poi - diventata ormai una splendida ragazza - la "protegge" (anche da Jamal), in quanto oggetto personale del suo capo.
Dopo anni di lontananza, le strade dei tre si rincontrano, grazie alla testardaggine ed all'amore di Jamal che cerca in tutti i modi di liberare Latika dalla casa in cui il boss ed i suoi scagnozzi - tra cui Salim - la tengono pressochè come una schiava.
Nel frattempo, i due piani temporali si sovrappongono e così troviamo Jamal seduto regolarmente sulla sedia per rispondere alla domanda finale e, grazie al sacrificio eroico del fratello "pentito", Latika pronta a rispondere al telefono per aiutarlo ad indovinare quella, milionaria, ultima risposta. Non ne sarà in grado. Ma Jamal, ormai vero eroe, più forte di tutto e di tutti, l'invincibile Jamal, azzeccherà - sparando a caso - anche questa. Per la gioia della folla delle baraccopoli in delirio e, soprattutto, l'amore eterno della sua bella.
Non si salva granchè di questa storia. E, complice la messa in scena ammiccante ed il montaggio furbo, è difficile resistere fino alla fine. La "morale" probabilmente vorrebbe essere: anche un pezzente, in un Paese lacerato, con la buona volontà, l'onestà, l'amore e una buona dose di "culo" (potremmo dire provvidenza, per chi crede: "era scritto" è la chiosa del film) può diventare un miliardario. Ce n'è di che essere accusati perlomeno di razzismo (emblematica la scena in cui i due turisti americani mostrano "un pezzo di vera america" al piccolo Jamal).

Nel corso del film vengono sfiorati tanti e così importanti temi da far rabbrividire, per via della faciloneria con cui sono liquidati. Così, per ragioni di ritmo (che è incalzante nella maggior parte del film), gli scontri religiosi sono liquidati con un "arrivano i musulmani" (che spaccano la faccia ed uccidono la madre di Jamal). La miseria ed il boom economico, l'effetto di programmi che promettono milioni e gloria, la violenza maschile sulle donne, etc...sono tanti altri temi buttati nel piatto solo per essere funzionali alla storia principale, che è quella dell'eroe senza macchia e senza paura che, alla fine, "ce la fa": un vero melodrammone per le lacrime di chi vuole.
Per non parlare delle incongruenze e delle scelte ingiustificate: il fratello di Jamal che, da spietato aguzzino diventa improvvisamente martire per la felicità della coppia; l'inverosimiglianza del quiz (pur nella sua ricostruzione scenica fedelissima) e soprattutto l'assurdità delle giustificazioni che stanno alla base delle risposte esatte. Certo, un film è sempre un'opera di fantasia, ma le scelte, anche se del tutto inverosimili, devono essere giustificate, si deve capire il perchè di un'inquadratura, di un dialogo, di una scelta di sceneggiatura, di un cambio psicologico così forte, etc...
Invece, nel pluripremiato The Millionaire, l'unica cosa che conta è il risultato finale, la vittoria dei buoni sui cattivi e tutto e tutti devono sacrificarsi a quello, a costo di perdere ogni ragion d'essere, ogni logicità. Ed abbandonarsi - ed abbandonare lo spettatore ormai stanco - alla più completa, piatta, spenta, mancanza di riflessione. Vinca Jamal, si amino gli innamorati, trionfi la bontà, in qualunque modo purchè finisca presto...

martedì 25 agosto 2009

Il cielo sopra Berlino - W. Wenders (1987)

Chissà, forse nemmeno lo stesso Wenders si aspettava che questo film diventasse così conosciuto (è probabilmente quello per cui è più universalmente noto), apprezzato (da taluni in verità odiato), recensito.
Si tratta - è lo stesso regista che ce lo dice - di un lavoro con una sceneggiatura scarna ed improvvisata (impreziosita ed ispirata dalle poesie di Rilke), in cui la decisione di creare il personaggio che sarà poi affidato a Peter Falk è intervenuta solo a riprese in corso, e che non nasconde soprattutto il fatto che manca - e si vede - un'idea di fondo. Il cielo sopra berlino sembra esattamente questo: un film che non sa dove vuole andare. Un peccato? No, tutt'altro.
Infatti, per quanto un pò scollegate tra di loro, le idee geniali non mancano. Sia di scrittura: il vecchio poeta che cerca Potsdamer Platz ricordandola bella e splendente prima della guerra (lì c'era il caffè, lì ci deve essere un tabaccaio,...), mentre ora è ridotta ad un ammasso di calcinacci; oppure il monologo interiore della trapezista disperata dopo aver saputo che il circo chiuderà; il dialogo iniziale fra i due angeli che si raccontano quello che hanno osservato ed annotato su un notes, con un'attenzione incredibile per le piccole cose, i particolari importanti della vita.
Sia di regia (premiata a Cannes): alcune scene, per come sono state girate - soprattutto quelle dentro alla biblioteca di Stato -, sono da antologia del cinema; superbe anche le inquadrature degli angeli - appollaiati, solitari, sulla Colonna della Vittoria - che riflettono ed osservano la vita umana che scorre sotto di loro. Interessante anche la fotografia, con la scelta di girare in seppia all'inizio, nel mondo degli angeli, e a colori nella seconda parte, nel mondo umano, ma con due eccezioni (in fondo sono mondi non così scollegati...)
Ma il vero punto di forza di questo film sta nella sua capacità di evocare: i fantasmi passati ma non ancora sopiti (la guerra con le sue atrocità, i bombardamenti, i morti, l'onnipresente muro che divideva in due la città e l'Europa intera), le difficoltà di una popolazione in via di arricchimento materiale, ma provata nella sua spiritualità, fatta di persone sole, che non comunicano mai (Il cielo sopra Berlino è un film fatto, con poche eccezioni, quasi interamente di monologhi e riflessioni, privo di dialoghi). Ma, allo stesso tempo, è un film che riesce, in mezzo a queste macerie, sotto a questo orripilante muro, con tutte queste solitudini, ad evocare anche la speranza. Una speranza incarnata dai bambini (che riescono a comunicare tra di loro e anche con gli angeli) e dall'amore. E se i bambini sono protagonisti anche grazie alla poesia scritta da P. Handke (co-sceneggiatore con Wenders) e ripetuta spesso durante il film, come a sottolineare la forza della volontà e dell'ingenuità di questi angeli in carne ed ossa, è proprio per amore della trapezista con le ali che avviene la svolta decisiva. Daniel (B. Ganz) infatti - che era comunque già stanco dell'immaterialità, stanco di esistere "da sempre" e non poter mai godere dell'ora - si decide a diventare umano. A scavalcare "il muro". Per poter amare.
Lo aiutano dapprima l'amico angelo Cassiel (O. Sander) - che invece resterà angelo e continuerà a cercare (senza sempre riuscirci) di influire positivamente sulle depressioni e debolezze umane - e, poi, un istrionico Peter Falk che, impersonando se stesso - a Berlino per girare un film su Hitler - ammette che anche lui, una volta, era un angelo ed ha scelto di fare il grande passo, per il piacere di mangiare un panino o "di sfregarsi le mani quando hai freddo".

Film delle bellissime immagini e dell'amore (ingenuo, angelico, da bambino, dunque autenticamente profondo) per le piccole cose.
Finale un pò tirato via, ma viste le premesse non poteva che essere così.

domenica 23 agosto 2009

La pelote de laine - F. Zohra Zamoun (2006)


Delizioso e terribilmente denso di significato questo cortometaggio di 14' presentato a diversi festival internazionali e premiato al Fespaco.
L'algerina Zohra Zamoun, emigrata in Francia, riesce a mettere in scena in pochi minuti e con pochissimi dialoghi un concentrato di potente ma dolcissima sovversione.
La trama: Fatiha vive assieme al marito e due figli in un condominio di una periferia francese. L'uomo, ogni mattina, andando al lavoro, chiude la porta di casa a chiave, impedendo alla moglile di uscire, con la scusa che si perderebbe perchè non conosce nessuno.
Pur rinchiusa apparentemente senza scampo, Fatiha riesce ad inventare un modo per comunicare con la vicina - francese, anche lei madre - e comincia così a ricrearsi una propria vita. Dagli scambi attraverso i balconi di biscotti, foto dei bambini, maglioni fatti a mano, si arriva alla complicità nella riproduzione delle chiavi del marito. Grazie all'aiuto della vicina, dunque, Fatiha riesce a ribellarsi e sottrarsi alla sua condanna. Inizierà così ad uscire di nascosto, mentre il marito è al lavoro. Porterà i bambini al parco giochi come tutti gli altri e parlerà con le altre madri. Nell'attesa di un cambiamento dell'uomo, che non arriverà mai. Così, un giorno, lui rincasando dal lavoro troverà la casa vuota.

Molto più che da interventi militari, dagli accordi fra Stati, dalla politica degli aiuti o degli embarghi, molto più che da leggi o divieti, contro ogni genere di fanatismi o repressioni (non per forza dettati dalla religione, ma anche - come in questo caso - dall'ignoranza, dalla prepotenza, dalla cattiveria e dal maschilismo imperante), ogni miglioramento della condizione umana dipenderà da coloro che sono vittime di soprusi e dalla possibilità che avranno di ribaltare (i ruoli e le norme), sovvertire (i governi e gli ordini più oppressivi), in definitiva: migliorare (le società di tutti).
Nostro compito - come ci mostra la madre francese di questo "La pelote de laine" - è sostenerli in questa decisa e dolce rivoluzione: degli usi e costumi più beceri, delle abitudini più oppressive ed apparentemente immodificabili, della realtà allucinante in cui viviamo.

Vagon fumador - V. Chen (2001)

In un'Argentina in piena crisi economica, tetra, vuota di speranze e futuro, sono molti i ragazzi che si prostituiscono per le strade di Buenos Aires. Andrès è uno di loro e lavora agli sportelli bancomat 24h.
Reni invece è una ragazza sola e triste, che sta per essere esclusa dal gruppo dove canta perchè gli altri componenti capiscono che nella sua voce c'è qualcosa che non va.
I due si incontrano "per caso" (Andrès ruba il bancomat a Reni, che glielo lascia perchè tanto non ha più un soldo nel conto) e cominciano a frequentarsi. Due solitudini che si incontrano, si "innamorano" l'una dell'altra, per un pò sembrano anche riuscire ad affrontare meglio, assieme, le notti di Buenos Aires (che sono lunghe per chi vive e lavora in strada), ma poi, inevitabilmente, finiranno per seguire ciascuna il proprio cammino ineluttabile.

Se la trama non è niente di eccezionale, i dialoghi appaiono a tratti forzati (e un pò banali), gli approfondimenti psicologici e le evoluzioni dei personaggi non esistono, il pregio di questo Vagon Fumador sta forse proprio nella regia della Chen.
Girato quasi interamente di notte, con la mdp a mano, inquadrature spesso accelerate o rallentate - che si alternano con riprese fisse delle telecamere a circuito chiuso dei bancomat - le luci delle macchine e dei negozi a creare uno sfondo disturbante, la regista riesce a rendere perfettamente l'idea della schizofrenia di una società come quella dell'Argentina, arrivata ad un collasso economico dopo decenni di sfrenata corsa ad inseguire un liberismo che ha condotto il Paese alla bancarotta e milioni di persone alla disperazione. Una società senza senso, incomprensibile, allucinante, soprattutto per i giovani, comprensibilmente privi di prospettive, di speranze e, infine (e ciò che è peggio), anche di voglia di cambiare le sorti della propria vita. Giovani pigri, forzati della pigrizia mentale, come Andrès.
Tutto ha un prezzo, spiega all'amica. Un panino costa 5 pesos, una birra 3 pesos. Io costo 150 pesos. E' questo il mio valore.
Insomma, senza un prezzo non sei nessuno. In questo mondo senza senso, per farti valere, per contare qualcosa devi farti pagare. E se non hai niente da vendere, non ti resta che il tuo corpo. E' solo questo che pare capire Andrès, è l'unica cosa che ha imparato dalla vita in strada.

Anche Reni prova a battere. Per curiosità, disperazione, noia, accetta di lavorare una sera assieme ad Andrès. Non le piacerà. E deciderà di partire, di andare, verso un non-si-sa-dove, ma lontano, molto lontano. In un film così triste e greve, è questo l'unico sussulto di vita, l'unico sprazzo di speranza.

In concorso a Venezia nel 2001

giovedì 20 agosto 2009

Il regista di matrimoni - M. Bellocchio (2006)

Franco Elica (S. Castellitto), famoso ed apprezzato regista, ma svenduto alle necessità ed ai gusti di produttori e pubblico di massa, sta girando l'ennesimo rifacimento de "I promessi sposi". Nel frattempo, la figlia si sposa con un fervente religioso, in un'orgia di canti di chiesa e schiocchi delle mani. Per lui, ateo e riservato, tutto questo è davvero troppo. Per quanto tutti lo chiamino "maestro", non riuscirà nemmeno a riprendere le scene della cerimonia religiosa con una piccola videocamera digitale.

Dopo aver appreso della morte di un collega (Smamma, interpretato da un grande G. Cavina) in un incidente in Sicilia, come d'incanto si ritrova fuggiasco su una spiaggetta siciliana dal paesaggio mozzafiato. Lì incontra un mediocre regista di matrimoni che, emozionato dall'incontro, domanda al "maestro" come girare una scena in spiaggia del filmino di una giovane coppia di sposi. Elica dapprima tituba poi, trascinato dalla sua arte, comincia a disegnare una scena del tutto fuori dagli schemi del "filmino del matrimonio", con fughe, nudo, erotismo, disperazione.
Da questo momento, da quest'idea, parte la storia.
Convinto da un principe in disgrazia a dirigere (non a filmare) il matrimonio d'interesse della bella figlia con un ricco ed insulso rampollo, il "maestro" entrerà tanto nella parte da voler costruire, scena dopo scena, un finale diverso da quello che tutti si aspettano. Con buona pace dei parenti che pretendevano - come protettori - un capolavoro dal loro artista a pagamento.

Film complesso, questo di Bellocchio, dai tanti risvolti. C'è l'aspetto psicologico e probabilmente autobiografico, affrontato nelle chiacchierate notturne di Elica con il finto-morto Smamma, sorta di Mattia Pascal moderno, unico modo per essere premiati, in questo mondo "dove comandano i morti" (ma per Bellocchio - e non si può che esser d'accordo, per quanto sia una banalità - anche i "paraculati", quelli che strizzano l'occhio alla critica). C'è poi l'aspetto quasi gattopardesco: in una Sicilia che sembra ancora ferma all'ottocento, una giovane, bella ed affascinante figlia di un principe caduto in miseria è costretta ad un matrimonio che non vuole per salvare l'onore della famiglia. Viene addirittura rinchiusa in un convento perchè il giorno delle nozze arrivi senza turbamenti. C'è poi l'amore, o forse meglio la voglia di evasione, di fuga, di autentiche passioni.
E poi, ed è probabilmente l'aspetto più complesso, c'è la riflessione sul cinema, sul ruolo del regista come creatore. Della finzione che a volte rischia di confondersi con la realtà e di soverchiarla. Soprattutto quando, come avviene in questo matrimonio (che non s'ha da fare..), tutto ciò che è reale appare così finto. E allora il ruolo del regista si fa invasivo e dalla semplice messa in scena passa all'intervento diretto sulla realtà dei fatti, in un continuo gioco a confondere i due piani, mischiarli, ingarbugliarli. Con un fine molto preciso, però: dimostrare che il cinema (come ogni arte del resto) può anche non essere disperata ricerca di un successo di critica o di pubblico, nè banale appiattimento descrittivo della realtà-così-com'è. Ma può essere, e anzi deve essere, amore. Amore per la vita, ma non un amore rinunciatario, tutt'altro: un amore diretto ad agire sulla realtà, a modificarla o quanto meno a cercare un cambiamento. Perchè il regista, come ogni artista, porta nella sua opera (di finzione, certo) la sua visione della realtà. E, così facendo, (se capace) la aggredisce, la rielabora, la mette in discussione. Per amore.

Il mondo a volte triste ed oppressivo a cui siamo abituati o la visione - a tratti folle, sovversiva - dell'artista dietro la macchina da presa ad immaginare finali diversi da quelli canonici. Dove sta la finzione?
E se Lucia avesse sposato l'Innominato?

mercoledì 12 agosto 2009

L'odio - M. Kassovitz (1995)

La descrizione di venti ore di tre amici che abitano in una banlieue di Parigi, il giorno dopo dei violenti scontri con la polizia che hanno portato alla morte di un giovane di origine maghrebina.

Miglior regia a Cannes '95, L'odio è effettivamente un concentrato di inquadrature azzeccate e fantasiose, tecnicamente all'avanguardia e dalla resa perfetta. Se a questo si aggiunge un bianco e nero d'effetto, dialoghi riusciti, interpretazioni eccezionali (V. Cassel, H. Koundé, S. Taghmaoui), piccole "chicche"di scrittura (la scena del cocainomane, la citazione di Taxi driver, la vacca in periferia,...) ed una colonna sonora superba, beh..ecco che ad uscirne non può essere che un grande film.

La tematica non era facile: si sa quanto film su emarginazione, ghetti di periferia, razzismo possano faclmente scadere nella banalità e faciloneria, farsi megafono di stereotipi fin troppo comuni. Ma non è questo il caso.
L'odio colpisce duro fin dalla prima scena e, al ritmo di rap (in senso letterale), trascina lo spettatore fin nell'inferno senza uscita di una vita ai margini.
Lo fa senza ricorrere a frasi fatte, senza ricorrere all'esposizione della violenza, se si eccettuano un fermo di polizia particolarmente ruvido ed un pestaggio di cui rimane vittima un naziskin (interpretato dallo stesso regista).
Per il resto, la violenza in senso stretto, la violenza mostrata non fa parte di questo film. Eppure L'odio è un film violentissimo, dove la violenza è dappertutto, non dà tregua, ti insegue e ti bracca, fino a lasciarti sgomento. Ma è nella creazione passo dopo passo del clima (e non nel suo spiattellamento) che sta la maestria dello scrittore di sceneggiature ed il manico del regista (in questo caso i due coincidono).

Una pistola, persa da un poliziotto durante gli scontri nella banlieue e ritrovata da uno dei protagonisti, che troviamo spesso puntata verso la mdp, così come talvolta gli sguardi dei protagonisti, altre "bocche da fuoco" pronte a sparare. Le urla, che accompagnano pressoché tutti i dialoghi, sempre lì lì per trasformarsi in scontri violenti, per qualunque stupido motivo. La droga, che vediamo appena per pochi istanti, ma dai quali capiamo che è l'unico modo per fare soldi per quei ragazzi. La mancanza totale di prospettive, la voglia di fuga e la disillusione di cui soffrono i protagonisti (il cartellone pubblicitario trasformato con lo spray). La distanza incolmabile fra il mondo dei ricchi intellettuali (probabilmente "di sinistra") ed il loro, troppo autenticamente problematico per poter essere accettato, o anche solo compreso e non etichettato come "disagio delle periferie", qualcosa da raccontare il giorno dopo agli amici. Senza capire che questo è il disagio delle nostre società, tutte intere, non delle periferie. E' probabilmente il disagio necessario affinchè vi sia l'agio di tutti gli altri. Che va difeso. Ed ecco allora la risposta dell0 Stato, quello Stato che è onnipresente nella banlieue, ma solo in divisa, che mostra i muscoli, che aggiunge violenza a violenza, in una spirale che non si sa fin dove porterà. Uno Stato che, per mezzo dei suoi funzionari addetti alla "sicurezza", arriva ad uccidere, o a torturare per il piacere di farlo. La scena del fermo violento in cui il poliziotto insegna alla giovane recluta come femarsi appena prima di lasciarsi troppo prendere la mano ("non perchè non si vorrebbe andare oltre eh...") vale più di un manuale o di un'inchiesta.

Film che sconvolge e turba perchè non ha mai un attimo di tregua, di autocompiacimento, di consolazione. Anche nei momenti più "tranquilli", un dialogo, una mossa della macchina da presa, un effetto, un rumore arrivano subito a riprenderti per i capelli e a riportarti giù, in strada. Da dove non si scappa. Da dove non si esce, vivi.