mercoledì 1 ottobre 2008

Hèrèmakono (Aspettando la felicità) - A: Sissako (2002)

A Nouadhibou, seconda città della Mauritania – in realtà poco più che un villaggio di pescatori sulle rive dell'Atlantico – si intrecciano senza fretta alcune storie. Hèrèmakono significa "aspettando la felicità" ed è non soltanto il titolo di questo film del regista mauritano Abderrahmane Sissako, premio della critica internazionale al Festival di Cannes 2002, ma è anche il nome che viene dato in Mali e Mauritania ai luoghi come Nouadhibou.
Luoghi di passaggio, dove sembra che la vita scorra solo perchè deve scorrere, ma dove manca qualunque prospettiva ed i giovani sognano solo di andarsene verso l'Europa, verso un mondo attraente e meno duro, verso gli show della televisione.
Sissako mette in scena questa tragica realtà africana senza nascondere la sua grande malinconia per una diaspora che sottrae al continente, giorno dopo giorno, forze vitali, cultura, tradizione, e certamente anche felicità. Quella felicità che i giovani africani (ma non solo) aspettano che si presenti loro in posti come Nouadhibou, sotto forma di una barca per l'Europa o di una qualunque altra opportunità di partire.
Abdallah è un giovane maliano che ha raggiunto la madre a Nouadhibou solo per salpare. Non parla la lingua locale – l'hassanyia – e vive isolato, in casa della madre, che gli starà vicino e cercherà di farlo desistere fino all'in bocca al lupo, appena prima della partenza. Non si sente inserito nella vita locale, non potrebbe esserlo, visto che non fa niente per inserirsi: passa le giornate di attesa a leggere ed il suo principale contatto con il mondo esterno sono due "finestrelle": l'una posizionata nel muro, ad altezza-piedi, da cui ogni tanto guarda fuori la vita del paese scorrere sempre uguale; l'altra è la televisione, da cui escono varietà francesi e promesse che non saranno mai mantenute.
Pur dovendo attendere molto tempo nel villaggio, non impara che poche parole in hassaniya, benché uno spigliato ragazzino si sforzi (e si diverta) nel cercare di insegnargliene di giuste e di sbagliate, affacciato alla finestrella.
Il piccolo - che di nome fa Khatra - è un apprendista elettricista, creciuto in fretta grazie ai consigli del maestro, Maata, ex-pescatore e saggio del paese. Le loro due figure, il loro rapporto, assieme alle speculari figure della maestra e dell'apprendista di canto sono il filo rosso che collega tutto il racconto. Rappresentano, potremmo dire, il – disperato – tentativo di difendere una tradizione, una cultura, di curare la crescita della propria gioventù e di mostrarle ancora una speranza ed un senso, per non farla cedere alle lusinghe ed agli ammiccamenti che provengono dall'altro lato del Mediterraneo. Non sarà facile, da soli.
Non lo sarà perchè qualcosa si è rotto, forse irrimediabilmente, condannando civiltà antiche e semplici a scomparire, per lasciare spazio al "villaggio globale", alle merci, ai programmi televisivi ed alla cultura occidentali, dotati di mezzi nettamente più forti e dunque destinati a spazzare via tutto quello che incontrano sulla loro strada.
E a produrre "scarti umani", donne e uomini frustrati che, esclusi dalle ricchezze materiali che pure volteggiano tutt'attorno, non vedono altra prosettiva che partire, imbarcarsi, diventare "clandestini".
Qualcosa si è rotto, ci dice Sissako, con una superba allegoria della lampadina che non funziona e del "guasto interno".
Hérémakono mette in scena il dramma dell'emigrazione anche come spinta alla libertà ammazzata dalla continua cattività in cui si vengono invece a trovare i migranti clandestini, spesso impossibilitati sia a proseguire, sia a tornare indietro.

"Non c'è niente di più tragico che perdere la libertà, niente di più tragico che perdere i parenti e gli amici..davanti alle finestre con le sbarre alzo gli occhi e contemplo le stelle che brillano. Sembrano gli occhi di mia madre che mi fanno abbassare lo sguardo e sono divorato dal rimorso. Attraverso le sbarre guardo fuori dove la vita è tanto bella. QUANDO TORNERO' A CASA?"
Così canta al karaoke un signore presumibilmente cinese, venditore di orologi ed altre cianfrusaglie a Nouadhibou, nel tentativo di raggranellare qualcosa per poter fare marcia indietro ed abbandonare definitivamente il suo sogno già infranto. Non a caso, Sissako lo piazza in una stanza con la carta da parati a strisce verticali nere, che richiamano anche visivamente l'idea di una prigione.
Nanà invece è una bella ragazza che deve vendere il suo corpo, dopo aver avuto una bimba da un francese che non ha mai voluto abbandonare la sua vita in Francia per starle vicino, nemmeno dopo la morte della figlia.
Di lei Abdallah potrebbe anche innamorarsi, se non fosse ossessionato dall'idea del viaggio.
Ci sono alcuni che partono, altri che tornano cadavere, altri ancora di cui non si sa più nulla ("E' già in Spagna" "No, è ancora a Tangeri". E si sa che fa una bella differenza!). I nuovi candidati all'emigrazione si fanno fotografare davanti ad un manifesto della Tour Eiffel. Ma c'è chi ha paura di partire e non tornare più.
Il vecchio Maata è con ogni probabilità colui al quale Sissako affida il proprio pensiero. Non gli piace parlare di viaggi, non è contento quando vede la gente partire. Nella sua ultima sera, erra nel deserto assieme al giovane Khatra, portando in giro una lampadina accesa nel buio pesto. Il simbolo è più che evidente. In sottofondo, in un sottofondo impossibile, si sente il canto dell'altra coppia "maestro-discepolo", quella femminile. E' la scena più significativa del film.
Dopo la morte di Maata, Abdallah finalmente parte. Si veste da signore, tutto elegante, e lo vediamo subito arrancare con la sua valigia sulla prima duna di sabbia. Su quella stessa sabbia nella quale svanirà il giovane Khatra, con indosso la sua tuta da elettricista nuova fiammante, ma già alle prese con i primi dubbi e le prime tentazioni.
Sconsigliato a chi non ama le allegorie ed i ritmi autenticamente africani.

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