venerdì 31 ottobre 2008

Favolose narranti. Storie di Transessuali - Porpora Marcasciano


Chi sono Laurella, Lisa, Nicole, Roberta, Nadia, Jasmine, Lidia? Cerca di darci una risposta la sociologa Porpora Marcasciano con il suo ultimo lavoro, ”Favolose narranti. Storie di transessuali”. Un libro che racconta uno spaccato attuale della nostra società, spesso emarginato ma soprattutto pochissimo conosciuto.
E’ attraverso le storie di vita delle protagoniste che l’esperienza trans si libera, nel corso dell’avvincente narrazione, dei pregiudizi e delle strumentalizzazioni politiche, affrontando temi delicati come l’inserimento lavorativo, il rapporto con la medicina, gli aspetti psicologici e sociali, l’impegno politico.
Si tratta di un affascinante viaggio nell’animo umano che ci offre diversi spunti di riflessione: “noi trans siamo migranti in tutti i sensi, migranti di genere e in genere, verso un corpo più nostro, verso un paese più familiare, verso una terra meno ostile”.
Ai racconti personali si affiancano alcuni saggi di testimoni privilegiati - psicologi, registi, giornalisti – che hanno avuto la possibilità di entrare in contatto con la realtà transessuale. Il risultato è quello di avere più punti di vista a confronto, interni e esterni, che rendono la transessualità – che non è altro che un’esperienza dell’umano - più familiare, alleggerita di luoghi comuni e banalizzazioni.

La vita è imprevedibile: quando i giochi sembrano fatti avviene qualcosa di inaspettato che scombina l’ordine delle cose e se non si è predisposti al cambiamento ci si schianta. Io fortunatamente sono riuscita a rimettermi in gioco, la vita mi ha ritirato in ballo e io…mi sono messa favolosamente a ballare”.

La transessualità è estremamente disturbante, perché mostra in parte qualcosa che investe alla radice l’esistenza di ciascun essere umano, ciò che si può definire con l’aforisma Panta Rei. Il transessuale incarna infatti la contiguità delle cose l’una all’altra, con il suo corpo materializza quello che il genere umano tende a negare o perlomeno ha bisogno di depotenziare nella sua violenta ineluttabilità: che niente resta uguale per sempre”.

Porpora Marcasciano è sociologa e vicepresidente del movimento italiano Transgender. Ha già pubblicato “Tra le rose e le viole” e “Antologaia. Genere, sesso e cultura degli anni settanta”. Il libro Favolose narranti, storie di transessuali, è edito da Manifestolibri. 191 pagine a un prezzo di 18 euro.

martedì 28 ottobre 2008

Hyènes - D. Diop Mambéty (1992)

Cosa può succedere se, da un momento all'altro, vengono riversati miliardi di dollari su persone che prima erano abituate a sopravvivere, spesso dignitosamente, con poco? E se assieme ai miliardi arrivano anche "merci", elettrodomestici, nuovi edifici? Se fossimo negli Stati Uniti parleremmo presumibilmente di "mutui subprime", ovvero concessi solo per permettere a chi non ne aveva la possibilità di accedere alle merci prodotte da un mercato capitalista in perenne necessità di espandersi per non atrofizzarsi ("recedere").
Nell'Africa ed in tanti Paesi del cosiddetto "mondo in via di sviluppo" si è fatta esattamente la stessa cosa, con i grandi istituti monetari mondiali ad elargire prestiti enormi, in cambio di mercati sempre più deregolamentati e possibilità per il capitale, le multinazionali ed i beni di consumo di muoversi liberamente e sfrenatamente. Fino al collasso. Fino ad un debito in crescita costante per via di interessi impossibili da rimborsare. Fino all'esclusione dalla vita sociale di tutti coloro che non potevano permettersi – perchè deboli, perchè troppo miseri, perchè meno arrivisti – di rivestire un ruolo "utile" nel mercato (sono solo due: venditore o acquirente).

Tutto questo succedeva nel Sud del mondo ben prima che scoppiasse l'intero sistema capitalista che ora, anche nel ricco Nord, si è dovuto togliere quel velo di apparente seducenza, mettendosi definitivamente a nudo nella sua fragilità. Di questo parla, con toni lirici ed evocativi, campi lunghi e panoramiche che rimandano con evidenza al western ed una colonna sonora enfatica ma mai pesante (musiche composte dal fratello del regista), un grande artista senegalese scomparso dieci anni fa: Dibril Diop Mambety.

La storia narrata è la seguente: Linguère Ramatou è una donna ricca (non a caso) "come la Banca Mondiale", che rientra a Colobane, suo misero villaggio natale (con tanto di municipio pignorato) dopo esserne stata scacciata da ragazza con l'accusa falsa ed infamante di essere una prostituta. Colpevole di questo gesto vigliacco Draman Dramé, gestore della drogheria-bar del paese, attualmente sposato ma, da giovane, amante segreto della diciassettenne bella e (allora) povera Linguère. Quando lei rimase incinta, Draman rinnegò il figlio e, comprando due testimoni con due bottiglie di vino, fece accusare Linguère di prostituzione e la fece cacciare, condannandola per davvero a dover vendere il proprio corpo per vivere. Ora, l'ex-prostituta divenuta donna di mondo (o donna globalizzata, potremmo dire, con tanto di servitrice orientale) ritorna ricchissima e promette 100 miliardi al villaggio, se Draman verrà ucciso.
Gli abitanti reagiscono sdegnati ma lo sdegno dura ben poco. È sufficiente iniettare un po' di liquidità nelle loro povere ed assetate tasche per dare il via ad una spietata (ed ipocrita perchè mai dichiarata) caccia all'uomo ("Il mondo delle iene è arrivato", è il commento soddisfatto della malvagia donna).
Linguère non ha dimenticato l'infanzia difficilissima, non si fa abbindolare dalle false parole dolci del sindaco nei suoi confronti, né da quelle di Draman che le dice di averla fatta partire per il suo bene, perchè potesse arricchirsi altrove. Linguère ragiona solo in termini di vendetta e distruzione (è, anche fisicamente, una donna "d'acciaio", a seguito di un incidente aereo di cui è l'unica sopravvissuta) ed ha i soldi per farlo. Si compra la giustizia per avere quella che ritiene la sua giustizia. ("Il mondo ha fatto di me una puttana. Io farò del mondo un bordello").

A seguito del suo arrivo nel villaggio, tutti si riversano nella bottega di Draman e comprano le merci più costose, in quantità smodate, molti indossano scarpe all'ultima moda provenienti dal Burkina Faso. Draman comincia a capire che la terra gli sta cedendo sotto i piedi e cerca la protezione dell'esercito. Il sergente gli risponde che dovrebbe essere contento perchè ora i soldi girano e sta facendo più affari.
Non manca un richiamo al ruolo della religione in questa corsa al capitalismo sfrenato: in una delle scene più surreali, Draman si trova all'interno di una chiesa, situata sotto il municipio e raggiungibile attraverso "la strada del paradiso"; guarda su una televisione immagini strazianti di giovani donne africane con marmocchi dalla pancia gonfia attaccati ai loro seni rinsecchiti poi alza la testa e vede una statua della Madonna circondata da due nuovissimi ventilatori.
Finisce quasi per sentirsi in colpa: in fin dei conti il villaggio sta aspettando solo la sua morte per entrare in possesso di tutti i 100 miliardi promessi da Linguère e già sul tavolo del sindaco compare un modellino con la Colobane che sarà.

Passata la prima sbornia, il sindaco ed il professore del paese si recano da Linguère e le chiedono di investire per far rinascere il villaggio. Terreni fertili, ricchezze minerarie: Colobane pare avere tutto, se solo ci fosse qualche investimento teso a migliorare la vita degli abitanti, anziché ad arricchire gli investitori. Linguère, nella sua follia (auto)distruttrice non ci pensa neanche: vuole solo il risultato immediato, la vendetta (che in realtà comporta per gli autoctoni anche rinuncia ai propri valori, sconvolgimento delle proprie vite e relazioni sociali,...) in cambio del denaro e del conseguente sviluppo che andrà come sempre a vantaggio di pochi.
Il giudizio finale è già scritto: le avide iene divoreranno (e faranno addirittura sparire) il corpo di Draman. La costruzione di una nuova Coloban può cominciare.

venerdì 17 ottobre 2008

Entre les murs (L. Cantet) 2008

Tratto dall'omonimo libro di François Bégaudeau – che interpreta anche il protagonista del film - "Entre les murs" è il racconto di un anno scolastico "all'interno delle mura" di una scuola francese di periferia, vissuto assieme al professor Bégaudeau, giovane e dai modi accattivanti, capace di alternare la fermezza alla più ampia comprensione.
Qua, fortunatamente, il film evita il primo grosso rischio: quello di trasformare l'insegnante in eroe. François non lo è. Insegna in una scuola di periferia, in mezzo ad alunni difficili, che hanno alle spalle situazioni familiari pesanti e sono in buona parte figli francesi di genitori nati in diverse parti del mondo. François è un uomo, un uomo normale, che ha reazioni umane, sbaglia, tituba, è messo in crisi dalla complessità del "mondo" che si trova di fronte ogni mattina.
Può essere il francese – definito scherzosamente ma non troppo da alcuni alunni come una "lingua morta" - a salvare questi ragazzi? François ne pare convinto, anche se deve continuamente alternare il suo ruolo di insegnante ad uno diverso e, se possibile, ancora più complesso: quello di "antenna", in grado di captare non solo i malesseri tipici dell'età adolescenziale, di tutti gli adolescenti, ma anche quelli - più recenti, di "ultima generazione", che hanno portato alle rivolte nelle banlieues - di giovani che comprendono subito di far parte di una classe sociale svantaggiata, che non avrà mai alcuna speranza di competere con i coetanei più fortunati.
Già, perchè anche se il film si chiama – e si realizza interamente – "dentro le mura" (della scuola), tutto ciò che ne resta fuori entra prepotentemente nella vita di questi ragazzi ed al giovane professore risulta sempre più difficile non tenerne conto, far finta che esistano solo i voti sul registro e le note di demerito, benchè un suo collega lo inviti a "non mischiare i ruoli" di insegnante e genitore.
Ma come fare quando il ragazzo più educato e maturo della classe, figlio di cinesi, si vede arrestata la madre perchè senza permesso di soggiorno, mentre il padre deve nascondersi per lo stesso motivo ed il ragazzino stesso forse potrà correre dei rischi una volta maggiorenne? Come fare quando si viene a sapere che il ragazzo più indisciplinato della classe, a casa aiuta la madre, lava i piatti e pulisce ed è continuamente minacciato dal padre?
François cerca di resistere all'urto di questa realtà difficile, di pararne i colpi ricorrendo all'ironia, divertendosi alle battute più sfacciate dei suoi allievi e cercando sempre di insegnare loro, attraverso il francese, i valori del dialogo, del rispetto, della democrazia.
Ma non è facile quando, oltre a situazioni familiari complicate, si aggiunge anche una fragilità sociale spaventosa che spinge i giovani di oggi a trovare nei cantanti rap e negli eroi di colore del calcio francese ben più che dei miti, ma veri e propri modelli cui ispirarsi, veri pilastri cui appoggiare la propria debolezza e le proprie frustrazioni e trasformarle in rivalsa. Di fronte a queste icone in carne ed ossa, il francese (ma anche la matematica, le scienza artistiche e tecniche,...) è ben poco. A che potrà servire quando il linguaggio universale del rap e quello manesco e volgare del machismo bastano per essere ritenuti "boss" della classe?
Lo scontro è evidentemente impari: da un lato gli insegnamenti che i professori validi cercano di passare agli allievi; dall'altro, i modelli che, "fuori dalle mura", raccolgono e commercializzano il disagio sociale, facendone strumento di marketing, esaltando le figure dei duri, degli irrispettosi, dei prevaricatori, per trasformale in mode. È troppo per un professore? Probabilmente sì, ed infatti anche l'ottimo prof. Bégaudeau finisce per essere schiacciato dall'ingranaggio e per dover rientrare negli schemi di giudizio di una scuola che ormai pare decisamente superata dai tempi e dalle mutazioni: note, voti, espulsioni sono minacce difficili da comprendere per chi non riconosce alcun valore all'alternativa, per chi si sente etichettato, fin da adolescente, come un teppista, uno senza speranze ("gentil, pas gentil", dice un professore che già conosce i ragazzi, scorrendo l'elenco della classe assieme ad un insegnante appena arrivato).

Davvero, ci si dovrebbe chiedere, cosa si offre a questi ragazzi – maleducati ed irriverenti, è vero, ma anche terribilmente spontanei e capaci all'occorrenza di un incredibile spirito di solidarietà – per convincerli della bontà della scelta di studiare e rispettare le regole della "civile" convivenza fra adulti? Perchè dovrebbero farlo?
Vincitore a Cannes 2008 della Palma d'oro.

sabato 4 ottobre 2008

Pickpocket - R.Bresson (1959)

È giusto che esistano persone al di sopra della legge non per il loro potere ed il loro peso politico o economico – questo avviene nella realtà e pare che non sia lecito chiedersi se sia giusto o meno – ma per le loro "capacità"? E che dire se queste "capacità" sono di ostacolo alla civile convivenza così come l'abbiamo sempre immaginata?

Michel, giovane francese di modeste condizioni, influenzato dalle numerose letture sovversive, diventa borseggiatore di professione, dapprima quasi per caso, spinto dalla necessità, e con scarsi risultati, poi, via via, con sempre maggiore convinzione e destrezza. Dopo alcuni furtarelli di poco conto e dopo aver rischiato più volte di essere arrestato, egli incontra un borseggiatore professionista che gli fa da maestro. I due, in compagnia di un terzo complice, finiranno per compiere "imprese" sempre più audaci, ma tutti finiranno presi dalla polizia.


Dunque, questo è il giudizio finale di Bresson? I ladri sono cattivi – benché filosofi e colti, come Michel – e dunque stanno in galera mentre gli onesti sono quelli che stanno fuori? Neanche per sogno. La storia di amore ed affetto che si intreccia con il progredire della carriera criminale di Michel, infatti, pare ribaltare, o perlomeno sospendere, il giudizio. Per tutto il racconto, Jacques, unico amico di Michel, lo rimprovera per il suo comportamento e le frasi irriguardose nei confronti della polizia.
Cerca di "riportarlo sulla retta via", di dargli dei numeri di persone a cui chiedere un lavoro e si innamora di Jeanne, povera ragazza abbandonata dalla famiglia nonché vicina di casa della madre di Michel. Non solo. Jacques va anche a trovare quest'ultima. L'anziana signora, gravemente malata, ormai moribonda, è stata infatti quasi abbandonata dal figlio che, forse troppo intento a pensare ai suoi libri, alla sua carriera, ai suoi esercizi di destrezza per allenare le dita, non la va mai a trovare ma si limita a farle avere dei soldi (dopo che, prima di diventare borseggiatore, gliene aveva addirittura sottratti). Insomma, Jacques e Michel sembrano diametralmente opposti e pare non esservi dubbio su chi dei due sia dalla parte della ragione e chi del torto.
Tuttavia, ecco che sul finire del film – dopo che Michel rientra dall'Inghilterra dove aveva passato due anni, "facendo colpi bellissimi" e poi scialaquando tutto - si viene a scoprire che Jeanne ha avuto una bambina da Jacques, il quale - forse per vendetta del fatto che Jeanne si rifiutava di sposarlo - se n'è andato improvvisamente, senza lasciare tracce di sé.
Michel decide di farsi carico di Jeanne e della bambina: si trova un lavoro, un lavoro vero, con tanto di divisa e busta paga e le cose sembrano anche funzionare. Senonchè, finirà per cedere di nuovo, dimostrando che la sua abilità e la sua filosofia erano in realtà degenerate in mania, ossessione, in un'incapacità di farne a meno della quale egli stesso – una volta dietro alle sbarre – si rende finalmente conto, pentendosi. Dunque, perchè vivere?, si chiede Michel. La risposta nell'abbraccio e nei baci finali attraverso le sbarre. Peccato, conclude Michel, che per capirlo abbia dovuto percorrere una strada così lunga.
Partito come teorico del ribaltamento delle prospettive da cui guardare il mondo, convinto del guadagno che una società avrebbe tratto nel permettere a certi uomini geniali di essere al di sopra della legge, tanto da discorrerne più volte anche con un ispettore di polizia che lo sospetta, Michel pare infine trovare la risposta al suo malessere in quella "normalità" che prima tanto evitava.



La regia di Bresson è come al solito asciutta e rigorosa, attentissima ai particolari, che rivestono – in questo come in altri lavori – un'importanza del tutto decisiva. Invece, a differenza che in altri film, come "Un condannato a morte è scappato", in cui era il fuori campo a parlare (con tutto quello che ne può guadagnare la suspence), qui le azioni principali – i borseggi – si svolgono tutte nel fuori vista, mentre tutt'attorno regna la normalità. A restituire la giusta importanza agli abili gesti dei pickpockets, si alternano alle visioni d'insieme i particolari: dita affusolate e sinuose, tasche di giacche, asole, giornali, borsette che si aprono.


Ispettore: "Caro signore, ma questo è il mondo al contrario"
Michel: "Visto che è già al contrario, questo rischia di rimetterlo a posto"

mercoledì 1 ottobre 2008

Hèrèmakono (Aspettando la felicità) - A: Sissako (2002)

A Nouadhibou, seconda città della Mauritania – in realtà poco più che un villaggio di pescatori sulle rive dell'Atlantico – si intrecciano senza fretta alcune storie. Hèrèmakono significa "aspettando la felicità" ed è non soltanto il titolo di questo film del regista mauritano Abderrahmane Sissako, premio della critica internazionale al Festival di Cannes 2002, ma è anche il nome che viene dato in Mali e Mauritania ai luoghi come Nouadhibou.
Luoghi di passaggio, dove sembra che la vita scorra solo perchè deve scorrere, ma dove manca qualunque prospettiva ed i giovani sognano solo di andarsene verso l'Europa, verso un mondo attraente e meno duro, verso gli show della televisione.
Sissako mette in scena questa tragica realtà africana senza nascondere la sua grande malinconia per una diaspora che sottrae al continente, giorno dopo giorno, forze vitali, cultura, tradizione, e certamente anche felicità. Quella felicità che i giovani africani (ma non solo) aspettano che si presenti loro in posti come Nouadhibou, sotto forma di una barca per l'Europa o di una qualunque altra opportunità di partire.
Abdallah è un giovane maliano che ha raggiunto la madre a Nouadhibou solo per salpare. Non parla la lingua locale – l'hassanyia – e vive isolato, in casa della madre, che gli starà vicino e cercherà di farlo desistere fino all'in bocca al lupo, appena prima della partenza. Non si sente inserito nella vita locale, non potrebbe esserlo, visto che non fa niente per inserirsi: passa le giornate di attesa a leggere ed il suo principale contatto con il mondo esterno sono due "finestrelle": l'una posizionata nel muro, ad altezza-piedi, da cui ogni tanto guarda fuori la vita del paese scorrere sempre uguale; l'altra è la televisione, da cui escono varietà francesi e promesse che non saranno mai mantenute.
Pur dovendo attendere molto tempo nel villaggio, non impara che poche parole in hassaniya, benché uno spigliato ragazzino si sforzi (e si diverta) nel cercare di insegnargliene di giuste e di sbagliate, affacciato alla finestrella.
Il piccolo - che di nome fa Khatra - è un apprendista elettricista, creciuto in fretta grazie ai consigli del maestro, Maata, ex-pescatore e saggio del paese. Le loro due figure, il loro rapporto, assieme alle speculari figure della maestra e dell'apprendista di canto sono il filo rosso che collega tutto il racconto. Rappresentano, potremmo dire, il – disperato – tentativo di difendere una tradizione, una cultura, di curare la crescita della propria gioventù e di mostrarle ancora una speranza ed un senso, per non farla cedere alle lusinghe ed agli ammiccamenti che provengono dall'altro lato del Mediterraneo. Non sarà facile, da soli.
Non lo sarà perchè qualcosa si è rotto, forse irrimediabilmente, condannando civiltà antiche e semplici a scomparire, per lasciare spazio al "villaggio globale", alle merci, ai programmi televisivi ed alla cultura occidentali, dotati di mezzi nettamente più forti e dunque destinati a spazzare via tutto quello che incontrano sulla loro strada.
E a produrre "scarti umani", donne e uomini frustrati che, esclusi dalle ricchezze materiali che pure volteggiano tutt'attorno, non vedono altra prosettiva che partire, imbarcarsi, diventare "clandestini".
Qualcosa si è rotto, ci dice Sissako, con una superba allegoria della lampadina che non funziona e del "guasto interno".
Hérémakono mette in scena il dramma dell'emigrazione anche come spinta alla libertà ammazzata dalla continua cattività in cui si vengono invece a trovare i migranti clandestini, spesso impossibilitati sia a proseguire, sia a tornare indietro.

"Non c'è niente di più tragico che perdere la libertà, niente di più tragico che perdere i parenti e gli amici..davanti alle finestre con le sbarre alzo gli occhi e contemplo le stelle che brillano. Sembrano gli occhi di mia madre che mi fanno abbassare lo sguardo e sono divorato dal rimorso. Attraverso le sbarre guardo fuori dove la vita è tanto bella. QUANDO TORNERO' A CASA?"
Così canta al karaoke un signore presumibilmente cinese, venditore di orologi ed altre cianfrusaglie a Nouadhibou, nel tentativo di raggranellare qualcosa per poter fare marcia indietro ed abbandonare definitivamente il suo sogno già infranto. Non a caso, Sissako lo piazza in una stanza con la carta da parati a strisce verticali nere, che richiamano anche visivamente l'idea di una prigione.
Nanà invece è una bella ragazza che deve vendere il suo corpo, dopo aver avuto una bimba da un francese che non ha mai voluto abbandonare la sua vita in Francia per starle vicino, nemmeno dopo la morte della figlia.
Di lei Abdallah potrebbe anche innamorarsi, se non fosse ossessionato dall'idea del viaggio.
Ci sono alcuni che partono, altri che tornano cadavere, altri ancora di cui non si sa più nulla ("E' già in Spagna" "No, è ancora a Tangeri". E si sa che fa una bella differenza!). I nuovi candidati all'emigrazione si fanno fotografare davanti ad un manifesto della Tour Eiffel. Ma c'è chi ha paura di partire e non tornare più.
Il vecchio Maata è con ogni probabilità colui al quale Sissako affida il proprio pensiero. Non gli piace parlare di viaggi, non è contento quando vede la gente partire. Nella sua ultima sera, erra nel deserto assieme al giovane Khatra, portando in giro una lampadina accesa nel buio pesto. Il simbolo è più che evidente. In sottofondo, in un sottofondo impossibile, si sente il canto dell'altra coppia "maestro-discepolo", quella femminile. E' la scena più significativa del film.
Dopo la morte di Maata, Abdallah finalmente parte. Si veste da signore, tutto elegante, e lo vediamo subito arrancare con la sua valigia sulla prima duna di sabbia. Su quella stessa sabbia nella quale svanirà il giovane Khatra, con indosso la sua tuta da elettricista nuova fiammante, ma già alle prese con i primi dubbi e le prime tentazioni.
Sconsigliato a chi non ama le allegorie ed i ritmi autenticamente africani.