giovedì 20 agosto 2009

Il regista di matrimoni - M. Bellocchio (2006)

Franco Elica (S. Castellitto), famoso ed apprezzato regista, ma svenduto alle necessità ed ai gusti di produttori e pubblico di massa, sta girando l'ennesimo rifacimento de "I promessi sposi". Nel frattempo, la figlia si sposa con un fervente religioso, in un'orgia di canti di chiesa e schiocchi delle mani. Per lui, ateo e riservato, tutto questo è davvero troppo. Per quanto tutti lo chiamino "maestro", non riuscirà nemmeno a riprendere le scene della cerimonia religiosa con una piccola videocamera digitale.

Dopo aver appreso della morte di un collega (Smamma, interpretato da un grande G. Cavina) in un incidente in Sicilia, come d'incanto si ritrova fuggiasco su una spiaggetta siciliana dal paesaggio mozzafiato. Lì incontra un mediocre regista di matrimoni che, emozionato dall'incontro, domanda al "maestro" come girare una scena in spiaggia del filmino di una giovane coppia di sposi. Elica dapprima tituba poi, trascinato dalla sua arte, comincia a disegnare una scena del tutto fuori dagli schemi del "filmino del matrimonio", con fughe, nudo, erotismo, disperazione.
Da questo momento, da quest'idea, parte la storia.
Convinto da un principe in disgrazia a dirigere (non a filmare) il matrimonio d'interesse della bella figlia con un ricco ed insulso rampollo, il "maestro" entrerà tanto nella parte da voler costruire, scena dopo scena, un finale diverso da quello che tutti si aspettano. Con buona pace dei parenti che pretendevano - come protettori - un capolavoro dal loro artista a pagamento.

Film complesso, questo di Bellocchio, dai tanti risvolti. C'è l'aspetto psicologico e probabilmente autobiografico, affrontato nelle chiacchierate notturne di Elica con il finto-morto Smamma, sorta di Mattia Pascal moderno, unico modo per essere premiati, in questo mondo "dove comandano i morti" (ma per Bellocchio - e non si può che esser d'accordo, per quanto sia una banalità - anche i "paraculati", quelli che strizzano l'occhio alla critica). C'è poi l'aspetto quasi gattopardesco: in una Sicilia che sembra ancora ferma all'ottocento, una giovane, bella ed affascinante figlia di un principe caduto in miseria è costretta ad un matrimonio che non vuole per salvare l'onore della famiglia. Viene addirittura rinchiusa in un convento perchè il giorno delle nozze arrivi senza turbamenti. C'è poi l'amore, o forse meglio la voglia di evasione, di fuga, di autentiche passioni.
E poi, ed è probabilmente l'aspetto più complesso, c'è la riflessione sul cinema, sul ruolo del regista come creatore. Della finzione che a volte rischia di confondersi con la realtà e di soverchiarla. Soprattutto quando, come avviene in questo matrimonio (che non s'ha da fare..), tutto ciò che è reale appare così finto. E allora il ruolo del regista si fa invasivo e dalla semplice messa in scena passa all'intervento diretto sulla realtà dei fatti, in un continuo gioco a confondere i due piani, mischiarli, ingarbugliarli. Con un fine molto preciso, però: dimostrare che il cinema (come ogni arte del resto) può anche non essere disperata ricerca di un successo di critica o di pubblico, nè banale appiattimento descrittivo della realtà-così-com'è. Ma può essere, e anzi deve essere, amore. Amore per la vita, ma non un amore rinunciatario, tutt'altro: un amore diretto ad agire sulla realtà, a modificarla o quanto meno a cercare un cambiamento. Perchè il regista, come ogni artista, porta nella sua opera (di finzione, certo) la sua visione della realtà. E, così facendo, (se capace) la aggredisce, la rielabora, la mette in discussione. Per amore.

Il mondo a volte triste ed oppressivo a cui siamo abituati o la visione - a tratti folle, sovversiva - dell'artista dietro la macchina da presa ad immaginare finali diversi da quelli canonici. Dove sta la finzione?
E se Lucia avesse sposato l'Innominato?

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