martedì 5 febbraio 2008

Lisbon story - W. Wenders (1995)


È un film di assenze. L'assenza improvvisa delle frontiere, che permette ai cittadini europei di viaggiare senza passaporto e a qualche illuso di sognare un mondo aperto ed uno spazio fluido in cui far transitare e coesistere persone ed idee. L'assenza del suono, evaporato nelle immagini mute di Lisbona e ricercato in ogni dove con un buffo microfono spione. L'assenza di un amore, annusato, atteso, ritrovato e nuovamente perso.
L'assenza di Friedrich, l'amico regista, che invita Phillip, tecnico del suono, a Lisbona per aiutarlo a finire un documentario sulla città e poi non si presenta mai a casa, dove sono alcuni bambini del quartiere a riempire il suo vuoto con telecamere insistenti. L'assenza dell'occhio umano nelle immagini non viste, riprese con una telecamera lasciata dietro alle spalle, per immortalare la città "così com'è e non come la desidero".
Le uniche immagini autentiche, secondo Friedrich, un vero patrimonio da tramandare ai posteri. Pura verità, puro documento. Niente a che vedere con il mercimonio del cinema, ormai molto più mezzo per fare quattrini che arte. A fare da sfondo, una Lisbona meravigliosa, che incanta con i suoi vicoli, i suoi scorci dalle terrazze, i suoi viali in pendenza percorsi dai tram.


È il centenario del cinema e Wenders vuole omaggiare il cinema europeo, contrapposto a quello americano ("Io sono europeo", dice Philip, fin da subito orgoglioso e felice dell'unità europea, inebriato del fatto che nessuno gli chieda il passaporto alla dogana) e la cultura portoghese, accompagnato dalla dolcissima voce della cantante dei Madredeus (che recitano in gruppo), inseguita, cercata dappertutto. Una voce che svetta per bellezza fra i mille suoni della città che Philip si ostina a registrare, nonostante l'apparente inutilità del suo lavoro.
Nonostante l'amico regista non si decida ad uscire dal guscio stretto e scomodo in cui si è ritirato, per via di un cinema dominante che si è fatto solo racconto di storie commerciali e non ha più niente della pura "visione". Equazione troppo semplice e per fortuna mai appesantita, in un film che è anche leggero ed ironico, in cui il solo monologo di Manoel de Oliveira – incentrato sull'inevitabile "menzogna" della memoria cinematografica, sull'impossibilità di intrappolare un momento "così com'è stato" - vale un lungo applauso.

Nessun commento: