lunedì 8 dicembre 2008

E' arrivata la felicità - F. Capra (1936)

Che farsene di un'eredità da 20 milioni di dollari in arrivo da un lontano parente quando si è sempre vissuti nel proprio piccolo paese e, fra lavoro, volontariato e musica si vive tranquilli? Mr. Deeds goes to town (titolo originale) va innanzitutto contestualizzato storicamente: siamo negli U.S.A. ancora in piena crisi economica ed il presidente Roosvelt, alla vigilia della sua seconda elezione, sta cercando di risollevare il Paese facendo leva su sentimenti quali l'onestà, l'etica del lavoro, la purezza d'animo, contrapposti all'insieme di tutto il male possibile: imbroglioni, approfittatori, sfruttatori,....Si tratta insomma della solita suddivisione "con l'accetta" che il discorso dominante riproduce anche oggi, a 72 anni di distanza (!), allorchè si sente parlare di "incoscienti", "spregiudicati", etc..come se davvero una crisi mondiale potesse essere provocata dalla follia o dall'imprudenza di un manipolo di esaltati e non dalla masochistica (ma non consapevole) vocazione al suicidio lento, giorno dopo giorno, di una fascia enorme e generalizzata di popolazione.
Mr. Longfellow Deeds (Ariosto Deeds nella traduzione italiana dell'epoca) è un giovane signore di campagna, che vive sereno, suona la tuba nella banda del paese, è pompiere volontario e scrive poesie su ordinazione, al fine di pubblicarle su cartoline augurali. L'annuncio della mostruosa eredità non lo smuove granchè, pur costringendolo a trasferirsi in città per seguire gli affari. Tutto attorno si muovono come sanguisughe tutta una serie di personaggi più o meno squallidi e più o meno interessati alla sua fortuna, fra i quali spicca per odiosità l'avvocato Cedar dello studio Cedar, Cedar, Cedar e Budington, intenzionato a mantenere il controllo amministrativo dell'enorme patrimonio. Il signor Deed (Gary Cooper) è paesano, ma certo non ingenuo, tanto che ha l'istinto di tenere sempre al di fuori delle sue decisioni l'avvocato Cedar (del quale dirà anzi che ha "la mano viscida") e di respingere tutte le altre pretese di personaggi squallidi in cerca dell'allocco da spennare.
Louise Bennet (Jean Arthur) è una caparbia giornalista che, riuscendo ad entrare nella vita privata del neomiliardario con uno stratagemma, ne scriverà articoli pungenti, sottolineando i suoi comportamenti spontanei ed infantili con un tono così sarcastico da tracciare l'immagine di un uomo ridicolo e quasi folle. Dulcis in fundo, gli appiopperà un soprannome azzeccato: Cinderella man, tradotto in italiano con un meno chiaro Cincinnato (ma, si sa, in quel periodo storico italianizzare e romanizzare tutto andava per la maggiore..).
Naturalmente i due finiscono per innamorarsi, così è facile immaginare la reazione di Mr Deed quando viene a scoprire che l'autrice di quegli articoli infamanti è proprio lei, la sua "Babe", per cui finalmente si era aperto il cuore ed alla quale aveva appena chiesto – in versi – di sposarsi. Distrutto, decide di utilizzare tutto il suo immenso patrimonio per comprare terre per le grandi masse di disoccupati e ritirarsi al suo paese. Per evitare quest'ultima follia, l'avvocato Cedar ed i parenti esclusi dall'eredità intentano una causa per dimostrare (anche basandosi sugli articoli di giornale) la follia di Deed, farlo internare e revocargli dunque il patrimonio prima dello spèrpero. Durante l'udienza decisiva, Deed tace per l'intera prima parte, considerando che più niente abbia ormai importanza; poi, superato lo shock – grazie anche all'impegno ed al pentimento di Louise – egli riuscirà a far decadere l'accusa con una magistrale e brillante apologia tesa a dimostrare che ognuno, a modo suo, è un po' "picchiatello".
Il film di Capra – Oscar per la miglior regia – è innanzitutto una piacevolissima commedia sentimentale; inoltre, ha il merito di sottolineare difetti e difettucci delle nostre società: arrivismo, avidità, voyerismo (agli esordi), servilismo verso i potenti, pregiudizi verso i forestieri, conformismo e rifiuto delle diversità,...
Ha tuttavia il limite - non piccolo - di mettere in piedi questa critica sociale partendo dal personaggio "buono" (che fa viaggiare bene il sistema, alimenta il sogno americano, fa della beneficenza per aiutare chi è in difficoltà,...) che si contrappone ai cattivi (che invece fanno andare fuori giri il sistema con la loro avidità) e non, al contrario e più radicalmente, partendo dalla critica del sistema stesso, che legittima e anzi richiede per funzionare l'esistenza di mostri come lo studio Cedar, Cedar, Cedar e Budington e, più in generale, lo sfruttamento del più forte sul più debole (altro che la similitudine del salvataggio in barca che recita Cooper durante l'arringa difensiva...).
Questa visione un po' facile e demagogica – del resto tipica di Capra – in quel particolare periodo storico sa anche di ruffianeria.

Le deuxième souffle - J.P. Melville (1966)

Tratto da un romanzo di José Giovanni – ex galeotto corso, che a sua volta passerà dietro la macchina da presa dopo questo film – Le deuxième souffle (nella traduzione italiana: "Tutte le ore feriscono...l'ultima uccide") è un classico del genere gangster movie/noir, stilisticamente perfetto, in cui non manca proprio niente. Il criminale spietato ma tutto d'un pezzo, pronto a morire pur di difendere la sua onorabilità; il poliziotto abile, dalla lingua sciolta e quasi divertito nel giocare a "guardia e ladri"; c'è l'evasione, il nascondiglio, un furgone da assaltare. E poi naturalmente le pistole, tante pistole, le sigarette, i cappelli a tese larghe, il cognac. E lei, la donna, che è sempre la donna del capo, chiunque egli sia.



Gustave Menda, detto "Gu", impersonato da Lino Ventura, è un criminale di "alta categoria", che torna a Parigi dopo un'avventurosa fuga dalla prigione che costa la vita ad uno dei suoi complici. Lì si ritrova con la sua donna, Manouche, e progetta di partire assieme a lei per l'Italia. Prima di partire, però, gli viene offerto di prendere parte ad un colpo da 200 milioni: si tratta di assaltare un furgone che trasporta platino, uccidere la scorta in moto, impossessarsi del bottino. Gu, che ha un disperato bisogno di soldi, accetta.
Il colpo, che ha luogo su una spettacolare strada di montagna, è ben architettato, grazie anche all'aiuto di un informatore, e riesce alla perfezione.
A Gu non resta che aspettare che le acque si siano calmate per incassare e partire.
È a questo punto che si dimostra nella pratica l'intelligenza e la furbizia del commissario Blot (Paul Meurisse) che, rintracciato fortunosamente Gu nel suo nascondiglio, riesce ad estorcergli la confessione con un inganno. Nella dichiarazione emerge anche il nome dell'ideatore del colpo (Paul Ricci), che viene arrestato. Fatto passare per un traditore dal fetente commissario Fardiano – che invece non riuscirà ad ottenere i nomi degli altri complici nemmeno dopo averlo fatto torturare quasi a morte – Gu riesce ad evadere dall'ospedale giudiziario dove era rinchiuso e ad ottenere la sua vendetta, sia su Fardiano ed i suoi metodi, sia sul fratello di Paul, Jo, vero burattinaio senza scrupoli dell'intera vicenda e dunque meritevole di morire.
Memorabili le sequenze finali della resa dei conti e dell'arrivo (come sempre tardivo) della polizia. Nel farsi morire il delinquente Gu fra le braccia, l'onesto commissario Blot lascia trasparire un senso di amarezza e dispiacere.



La povera Manouche è l'unico personaggio femminile in un mondo perturbato da cattiverie maschili e dunque forse sarebbe l'unico punto di vista differente, purtroppo mai approfondito, del film: alla fine si ritroverà sola, come del resto era scritto nel suo destino sfortunato e a quanto pare inevitabile di "compagna del capo".
Cadenzato dall'alternanza di lunghi silenzi ed improvvisi "scoppi" - di parole, di armi – rigidamente formale nella regia e basato sul principio che "buoni" e "cattivi" sono più che mai trasversali alle categorie di "guardia" e "ladro", Le deuxième souffle è anche il rimpianto di un criminale (J. Giovanni) per un mondo che conosceva bene e che vedeva sempre più deteriorarsi. Non a caso, il "vecchio" Gu è rispettato e tenuto in considerazione elevata da tutti, commissario Blot compreso, tranne che dal giovane membro della banda con cui assalta il furgone, simbolo quasi di uno scontro generazionale e di mentalità.
La retorica è quella tipicamente maschilista e conservatrice dell'onorabilità del gangster (o del poliziotto, del padre di famiglia, etc..) di una volta, che manteneva la parola data e non tradiva gli amici, la stessa dell'uomo forte "che non deve chiedere mai".
Remake nel 2007 (Alain Corneau, con D. Auteuil e M.Bellucci)

venerdì 5 dicembre 2008

Elephant - G. Van Sant (2003)


Palma d'oro e premio per la miglior regia a Cannes, Elephant è un lavoro curato e di forte impatto, nonostante una sceneggiatura tutto sommato povera e priva di colpi di scena.
I protagonisti sono un gruppo di giovani, ciascuno alle prese con i suoi problemi e le sue paranoie tipicamente adolescenziali ma, soprattutto, con una grande, infinita solitudine. È questo sentimento (unito ad una forte inquietudine) che resta più di ogni altro allo spettatore al temine degli 80 minuti di Elephant: non c'è condanna, né assoluzione per gli autori della strage (che fa evidente riferimento a quella di Columbine del 1999, pur potendo legarsi ad ogni altra strage perpetrata da ragazzi all'interno di un istituto scolastico).
Quello che colpisce – e che viene visivamente enfatizzato dal ricorso ossessivo di Van Sant alla carrellata a seguire i ragazzi – è il loro completo spaesamento, il loro incedere solitario, triste e sempre uguale per i larghi e spesso deserti e bui corridoi della scuola, in cui il massimo scambio che vi avviene è uno sguardo provocante, o un "batti cinque".
Non c'è nemmeno nessun adulto che possa venire incontro al loro malessere: non potrà il padre ubriacone, non potrà il preside ottuso e severo, non potrà il professore ciarlatano, la madre assente,...e così i ragazzi finiscono per trovare ragioni di vita o modelli da imitare nella linea da mantenere, nel nazismo, nell'alcol, nella passione per le armi. Ferendosi a vicenda, in una sorta di competizione tra fragilità in cui all'aggressivo tocca il ruolo di torturatore, al timido quello della vittima.
È una continua disgregazione quella che mette in scena Gus Van Sant: della famiglia, della scuola come istituzione in grado di comprendere, far crescere e maturare i ragazzi, ma anche delle amicizie, che sembrano basarsi più sulla momentanea, opportunistica condivisione di piaceri passeggeri che non su un reale coinvolgimento emotivo o su uno scopo da raggiungere.
Cosa suggerisce la regia, nel decidere di mostrarci le stesse scene dal punto di vista di diversi ragazzi? Che il vuoto riguarda tutti, nessuno escluso. Che un senso nella vita di questi giovani "normali" non si vede proprio, che in questo ognun per sé e tutti contro tutti davvero l'esistenza si rivela inutile e triste.
La morte di Benny, il ragazzo che aiuta una compagna a saltare fuori dalla finestra per mettersi in salvo e poi, nel silenzio irreale della strage, decide di andare consapevolmente incontro ad una morte certa ne rappresenta in un certo modo l'emblema.
Filma i giovani, Van Sant, per accusare gli adulti, o meglio il mondo che gli adulti hanno contribuito a creare. Un mondo sempre più diviso, fatto di individui deboli che però devono dimostrarsi forti e "duri" per restare a galla. Fino a che, talvolta, ci scappa l'eccesso, lo scoppio di rabbia apparentemente improvviso ed inaspettato, apparentemente folle, ma che tuttavia – ad un occhio sensibile – è tutt'altro che tale. Questo film, sminuzzando il racconto e ricostruendolo da diversi punti di vista prima di arrivare al climax vuole dirci proprio questo: tutte le tragedie, anche le più incomprensibili - e questa certo lo è -, hanno una radice.
Colonna sonora affidata in larga parte a Beethoven, di kubrickiana memoria, così come le carrellate per i corridoi di quella scuola, così simile ad un Overlook hotel.
"Elephant allude al proverbio americano dell' "elefante nella stanza" di cui paradossalmente nessuno si accorge" (il Morandini 2007)

domenica 30 novembre 2008

Il vento fa il suo giro - G. Diritti (2005)

Piccola produzione italiana, finanziata in cooperativa – di cui fan parte anche gli stessi attori (non professionisti) –, Il vento fa il suo giro è un film che parla, con le immagini e (a tratti troppo) con i dialoghi, della difficoltà umana nell'accettare il nuovo, il diverso, senza pretendere che questo si pieghi in toto alle regole preesistenti e si dimostri continuamente grato verso chi generosamente lo ha tollerato sul suo territorio.

Vuole parlare in generale questo film di Giorgio Diritti e forse il difetto più grande di questo lavoro – comunque di ottimo livello – si trova proprio nella sua pretesa didascalica e generalizzatrice. O meglio, al mezzo cui questa pretesa (condivisibile) viene affidata: il dialogo, ovvero il mezzo più semplice. Quando alle baite, ai monti di Chersogno ed ai volti, sinceri e credibili proprio perchè sono state scelte persone del luogo, si sostituiscono i dialoghi filosofici e "da professore" di Philippe, ecco che il film finisce per diventare ridondante, appesantirsi, perdere di spontaneità, allungarsi eccessivamente. Sarebbe allora stato meglio lasciare che fossero le immagini - e magari la successiva riflessione dello spettatore – ad affrontare i discorsi (pienamente condivisibili) sulla non-staticità delle culture e sulla necessità di non fermarsi alla "tolleranza" di chi viene da fuori ed è portatore di una storia ed una cultura altre.





Il racconto è ambientato in un piccolo paese ormai spopolato, al confine fra il Piemonte e la Francia. La gente del luogo – una decina di persone stabili, più quelle che vivono in città ma passano le ferie in paese – parla l'occitano e pare tanto legata alle proprie tradizioni quanto rassegnata a vederle scomparire per sempre senza reagire.

Il paese sta morendo, tutti ne sono consapevoli. Eppure, la richiesta di questo ex-professore francese, divenuto pastore perchè "a scuola si insegnano cose inutili ai ragazzi", di trasferirsi dai Pirenei con la moglie ed i tre figli per far pascolare le proprie pecore e fabbricare il formaggio, è accolta con molta diffidenza. C'è chi ha paura perchè non lo conosce, chi teme che "poi arriveranno gli albanesi", chi dice che bisogna prima pensare alla gente (quale?) del paese ed alla conservazione delle sue tradizioni: insomma, meglio preservare rigidamente immutate le usanze e farle così morire, che aprirsi alla contaminazione e garantire così una sopravvivenza dignitosa al paese.

Ad aggravare la situazione, c'è il fatto che sono tutti molto preoccupati per via di alcuni furti nella zona: i ladri si sono infilati in alcune delle case sfitte per undici mesi all'anno ed i montanari, impauriti, si sono ancor più chiusi in se stessi.

Comunque, grazie al coraggio ed alla disponibilità del vice-sindaco, speranzoso di rilanciare il paese, una casa per la famiglia francese alla fine si trova e sono in diversi a dare una mano per ristrutturarla. Dopo un inizio di convivenza all'insegna dei buoni sentimenti, tuttavia, la diffidenza torna a riemergere ai primi screzi. La famiglia, dapprima adottata e benvoluta dai più, viene isolata, ogni gesto non conforme alle rigide convenzioni paesane viene enfatizzato per sottolineare la "diversità" e l'estraneità di quei normalissimi e semplici francesi, trattati ora come "pezzenti", ora come "puzzoni", ora come incapaci di una convivenza civile. La situazione degenera e dai primi rimproveri per via dello sconfinamento delle capre su terreni su cui non era loro concesso di pascolare, si arriva fino ad avvertimenti in stile mafioso. Quando la famiglia deciderà di andar via, saranno in pochi a soffrire per questo progetto di convivenza fallito.

Finale amaro ma inevitabile, viste le premesse: la buona volontà di alcuni deve arrendersi di fronte all'enormità degli ostacoli. Le domande, i dubbi e le riflessioni che portano queste persone provenienti "da fuori" sono troppo per una società moribonda che decide dunque di suicidarsi.


Ci vorrà tempo ed un paziente lavoro per cancellare questa bizzarra (e solo contemporanea) idea – perpetuata e sfruttata dal dibattito politico e dal macchiettismo televisivo – per cui le "tradizioni", le "radici", le "origini", le "usanze" sono qualcosa di immutato ed immutabile, privo nei secoli di qualsiasi influenza esterna ed in perenne rischio di annullamento a contatto con le diversità. Al contrario, la storia dimostra proprio che è senza lo scambio, il confronto e l'arricchimento reciproco che le società muoiono nella loro solitaria monoliticità. L'incontro con l'altro non è tolleranza, né estetizzante esotismo: è crescita per ciascuno di noi, è occasione per riscoprire davvero le proprie radici (a partire da uguaglianza, rispetto e solidarietà), non per difenderle nella loro teoria, ma per affermarle e rilanciarle con la pratica.

Pluripremiato in Italia e all'estero, Il vento fa il suo giro (sottotitolo: ...e ogni cosa prima o poi ritorna) ha avuto enormi difficoltà anche di distribuzione, che ne hanno fatto involontariamente un ottimo esempio di film "di nicchia" che si è trasformato in film di successo grazie al passaparola ed in barba alle regole ottuse del mercato italiano.

sabato 29 novembre 2008

Cuore di Vetro - W. Herzog (1976)

Germania rurale, 1800. Hias è un guardiano di vacche dotato di chiaroveggenza. Dai pascoli in altura osserva il mondo da sopra alle nuvole e nel silenzio dei luoghi immagina foschi presagi da fine del mondo, si vede risucchiato vorticosamente sempre più in basso, sempre più in basso,....ma. Ma è proprio da lì che, riacquistata la pace interiore e liberatosi di tutto ciò che lo appesantisce (tutto è inutile), l'uomo può cominciare il suo nuovo volo, leggero, e ricostruire così una nuova società.
I 70 minuti che seguono il lirico ed intenso esordio di Cuore di vetro sono un esempio di rapida discesa all'inferno degli uomini.
In un piccolo borgo depresso è appena morto il mastro-vetraio, che si è portato nella tomba anche il segreto per fabbricare quel vetro color rubino che assicurava gioia e tranquillità al paese. Il figlio del proprietario della vetreria, nonchè signore del luogo – un vecchio da 12 anni immobile su una sedia, capace però di una sarcastica risata da brividi – decide che vuole a tutti i costi scoprire quel segreto.
In un climax di follia, sottolineato da una fotografia tendente al rosso fino quasi all'estremo, il giovane fa rubare alla moglie (muta) del mastro-vetraio il divano dove l'uomo era solito sedersi, nella convinzione che al suo interno fosse nascosta una formula inesistente; poi uccide la propria serva, certo che fosse un miscuglio con il sangue umano a donare quel magnifico colore al vetro; infine dà fuoco di notte alla vetreria.
Tutt'intorno a lui si dispiega la follia dei paesani che si uccidono, ballano con i morti, si divertono sguaiatamente, consci del loro triste presente. Hias "vede" tutto questo prima che accada, ma nessuno lo ascolta, anzi, proprio perchè aveva predetto tante sventure viene alla fine accusato di essere lui a portare sfortuna e miseria in quel luogo e viene imprigionato, assieme al giovane signore, ormai sprofondato nella sua pazzia.
Hias però ha bisogno di "tornare a vedere", perciò scappa e torna sulla montagna. Lì, dopo aver combattuto ed ucciso gli ultimi fantasmi del vecchio mondo, ricomincia a "vedere" ed immagina uomini sperduti su un'isola rocciosa che, stanchi della loro limitata solitudine e spinti dalla più bella ed istintiva caratteristica umana – "il dono del dubbio" -, decidono di rischiare e di andare a conoscere come è fatto il mondo. Partono su una barca alla ricerca di una nuova terra, accompagnati dai canti e dai gabbiani.
Gli attori di questo film hanno recitato sotto ipnosi.
"Nelle acque il ricordo di Atlantide. Io vedo una nuova terra che nasce"

mercoledì 26 novembre 2008

Changeling - C. Eastwood (2008)


Come definire se non stupido il comportamento di una polizia che, ansiosa di donare tranquillità alla cittadinanza e soprattutto scrollarsi di dosso una pessima reputazione, riporta ad una donna, disperata per la scomparsa del suo unico figlio, un bambino diverso? Eppure l'ultimo film di Clint Eastwood è un dramma intenso e terribile, se al tragicomico sbaglio si aggiunge che i capi della polizia e gli incaricati dell'inchiesta decidono comunque di chiudere frettolosamente le indagini, negando fermamente l'errore e creando un muro attorno alla povera madre nel tentativo di farla passare per pazza ingrata, fino a farla rinchiudere in un manicomio.
Siamo a Los Angeles, nei mesi immediatamente precedenti al crollo delle borse del '29 e, in un'America tutta presa dal suo sogno economico, Christine è una bella ragazza madre (abbandonata dal proprio compagno, impaurito dalla responsabilità di un figlio) che deve conciliarsi fra la cura dell'adorato Walter ed il lavoro in un centralino di smistamento delle telefonate. Un giorno, rientrata a casa, scopre con orrore che il figlio non c'è. L'atteggiamento della LAPD (L.A. Police Departement) è immediatamente chiaro fin dalla prima telefonata, i pregiudizi sui "ragazzetti" che se ne vanno a bighellonare e sulle madri isteriche è subito evidente. Ma è dopo il ritrovamento del finto Walter che si scatena la barbarie in divisa e doppiopetto. Sbirri, capi della polizia, medici, politici, tutti concorrono a formare un cordone di (in)sicurezza intorno a Christine, fingendo di aiutarla ma in realtà facendola sprofondare sempre più in una follia indotta che non arriva alle estreme conseguenze dell'internamento perpetuo solo grazie all'aiuto di qualche singolo coraggioso ed a "fortunate" circostanze. E non sarà il poliziotto onesto che decide - forse più per "eccesso di schifo" verso i colleghi che per convinzione – di seguire una traccia diversa e riaprire l'indagine, né saranno i giudici severi verso i reali colpevoli di questa tragedia umana a farci cambiare opinione sulla drammaticità della condizione del singolo che, di fronte al potere, alla gerarchia, all'ordine costituito (come cantava De Andrè), rischia di trovarsi improvvisamente solo, spinto alla pazzia e poi rinchiuso, torturato, diviso dai propri cari per ragioni che, se nel film di Eastwood possono anche apparire insostenibili, lontane nel tempo, non riproponibili dovrebbero invece farci tutti riflettere per la loro attualità.
Quando, per motivi che oggi vanno per la maggiore (la sicurezza, la tutela del patrimonio, la difesa dell'ordine pubblico,...) si legittimano i detentori del potere (siano essi in doppiopetto o in divisa) ad usarlo a piacimento infischiandosene di cose (effettivamente fastidiose e di intralcio...) come i diritti umani e la giustizia uguale per tutti, ecco che il dramma descritto in questo Changeling (peraltro tratto da una storia vera ripescata negli archivi della LAPD) rischia di riproporsi quotidianamente dietro altre forme. E, ciò che è peggio, senza che si riesca ancora ad afferrare che dietro a tutti questi schermi di belle parole e nobili obiettivi, si nasconde generalmente sempre un solo scopo: la conservazione del potere nelle mani di chi ce l'ha. E non tutte le sentenze possono essere "riparatorie".
Film lungo ma mai noioso, bella fotografia chiaro-scuro, bravi gli attori, soprattutto un'ottima Angelina Jolie che riesce a mantenere il suo personaggio nei limiti senza strabordare (vista la storia, il rischio c'era). Eastwood affianca alle regole del cinema americano classico un paio di colpi ad effetto, "giocando" con il viso emaciato della Jolie, incorniciato da un luminosissimo rossetto.

lunedì 24 novembre 2008

Rocco e i suoi fratelli - L. Visconti (1960)

L'idea del contrasto emerge fin dalle primissime scene, come a voler da subito sottolineare quello che sarà uno dei princìpi cardine di tutto il film. Il contrasto fra l'idea di famiglia unita ed indissolubile che la madre Rosaria si porta con sé dalla Lucania fin su a Milano e la dura realtà di una società disgregata e disgregante, in cui i legami familiari sono destinati a spezzarsi, sacrificati sull'altare di una voglia di benessere e di libertà che possono portare all'emancipazione (se li si raggiunge per davvero) così come all'autodistruzione.
Appena scesi dal treno alla stazione di Milano, infatti, Simone, Rocco, Ciro, Luca e la madre si aspetterebbero di trovare Vincenzo, il fratello maggiore già trasferitosi al nord da tempo, con un lavoro, una fidanzata e la possibilità – questo almeno è ciò che spera Rosaria – di occuparsi di tutti quanti, ora che il padre è morto. Ma Vincenzo non c'è e poco dopo la panoramica sui volti stupiti della famiglia che dal bus guardano attoniti le luci delle vetrine di Milano anticipa già il secondo tema centrale (peraltro strettamente collegato al primo): quello delle conseguenze drammatiche dello sradicamento. E' solo per evitare ai figli di vivere una vita di sacrifici e di stenti che Rosaria si è decisa a partire per Milano: per non far ammazzare di fatica anche loro su quella terra ingrata, come aveva fatto loro padre, "che è morto mille volte prima di chiudere gli occhi".
C'è tutto il dramma dall'emigrazione in questo capolavoro di Visconti e rimbalza negli occhi dello spettatore con una violenza tale che non si può fare finta di nulla, né cedere ad alcuna estetizzante benevolenza paternalistica verso la famiglia di "terùn" che emigra in cerca di una vita e di una libertà nel grigio, freddo, ostile Nord.
Ciascuno dei fratelli imbocca poi la sua strada per la disperazione via via crescente di Rosaria che solo nelle prime battute (fondamentalmente solo nella scena del risveglio sotto la neve, mentre prepara la colazione per tutti, dà indicazioni sui vestiti da mettersi e si fa salutare dai figli uno ad uno sulla soglia di casa) sembra riuscire a mantenere il controllo della famiglia come vorrebbe. Vincenzo, per via che "ha combinato nu guaio", sposa la fidanzata nonostante l'opposizione delle rispettive madri; Simone, che è l'inquieto della famiglia, si lascia sedurre da Nadia, una giovane donna che "fa la vita" e lo convince ad intraprendere la carriera da boxeur ("un mio amico che fa la boxe ha una macchina lunga lunga che non finisce più"), prima di lasciarlo, finire in carcere ed innamorarsi di Rocco; quest'ultimo – nonostante la giovane età – è senza dubbio il più maturo e sensibile dei 5 fratelli ed è anche l'unico a riuscire a conservare quel senso di famiglia e di unità che ne fa la proiezione dei desideri della madre. Rocco vorrebbe tanto tornare al "paese", se solo le cose andassero meglio laggiù; Rocco è anche l'unico a difendere ostinatamente Simone davanti ad ogni sua nefandezza. "Noi non dobbiamo giudicarlo, noi dobbiamo solo difenderlo", dirà anche dopo che Simone ormai ridotto a relitto, a scarto della società, fallito, depresso ed alcolizzato, avrà confessato di aver ucciso la giovane e bella Nadia.
Altra vittima predestinata, Nadia è una prostituta che fa perdere la testa a Simone che, istigato da una sorta di Lucignolo di periferia ed accecato dalla gelosia, la violenta davanti agli occhi di Rocco, ovvero – dice la stessa Nadia - "la sola cosa bella che mi fosse capitata nella vita". Rocco infatti è l'unico a comprendere realmente la tristezza e la solitudine di Nadia, a cercare di stimolare il suo amor proprio, fino a convincerla a frequentare un corso per dattilografa per tirarsi fuori dalla strada. "Tu mi fai pena", le dice, "perchè tieni sempre l'aria di avere paura, mentre non bisogna aver paura, bisogna avere fiducia". Nadia pare sul punto di farcela, l'amore (per Rocco ma anche per sè) sembra spuntarla, ma ecco che la gelosia, la violenza, la bestialità umana intervengono a riportare tutto prepotentemente sui soliti binari. La difesa ad oltranza di Simone da parte di Rocco - che finisce per incolpare se stesso e Nadia della furia omicida di Simone - fanno crollare definitivamente la povera ragazza che oltre ad aver subito il dramma della violenza sessuale vedrà perdere di senso tutto quel poco di bene che aveva ricevuto, senza capire il perchè ("Quello che ieri era bello e giusto oggi diventa una colpa?") e dovrà tornare a fare "la vita", prima di essere uccisa in una sequenza giustamente divenuta mitica.



Sono troppi gli spunti che regala questo film, anche semplicemente attraverso una battuta, uno scambio di sguardi, una gestualità: l'accoglienza che le vecchiette milanesi riservano alla famiglia lucana che trasloca negli alloggi popolari racconta magistralmente un mondo intero di stereotipi ed arroganza dei "settentrionali" (di tutti i nord del mondo) verso i "meridionali" (di tutti i sud del mondo); la divisione delle lenticchie buone da quelle marce in cucina, metafora che Ciro riprende sul finale per convincere Rocco che Simone con la sua follia sta portando tutta la famiglia alla rovina e che bisogna separarsi da lui prima che sia troppo tardi.
È il finale però quello su cui vale la pena di soffermarsi. Ciro, il fratello più "sottotono", che lavora all'Alfa Romeo come operaio specializzato, dopo aver ottenuto il diploma alle scuole serali, ed è innamorato di una bella ragazza acqua e sapone che vuole sposare, passa la pausa pranzo assieme al piccolo Luca, sul quale tutti i fratelli finiscono prima o poi nel corso del film per far ricadere le proprie speranze o le proprie frustrazioni. Simone è appena stato arrestato per l'omicidio di Nadia, mentre Rocco, per pagare i debiti di Simone, si è cacciato in un vicolo cieco fatto di combattimenti di boxe in giro per tutta l'Europa, proprio lui che, al contrario di Simone, non amava boxare, perchè lo spaventava tutta la cattiveria che era capace di tirare fuori sul ring. In attesa del suono della campana che richiamerà gli operai al lavoro, Ciro cerca di trasmettere al piccolo Luca la speranza per una vita che sarà più giusta e più onesta, in cui tutti potranno vivere senza ammazzarsi di lavoro e liberi, ma senza dimenticarsi i propri doveri, come invece ha fatto Simone, che "per questo ha fatto la fine che ha fatto".
Una sorta di metafora che predica che con il lavoro, la rettitudine ed i sani princìpi (quindi non con i buoni sentimenti di Rocco, né con la sregolatezza di Simone) si costruirà un'Italia migliore, giusta e libera. Suona la sirena, Ciro torna al lavoro ed il piccolo Luca se ne va.
Da lontano, chiama l'unico fratello che gli è rimasto in casa e si raccomanda con lui: "torna a casa stasera!". Sulle pagine di tutti i giornali, attaccati ai muri, la foto di Rocco impegnato in una serie di combattimenti, prova finale dell'ultimo sacrificio fatto in nome di un'idea di famiglia che si trova improvvisamente fuori luogo.

venerdì 31 ottobre 2008

Favolose narranti. Storie di Transessuali - Porpora Marcasciano


Chi sono Laurella, Lisa, Nicole, Roberta, Nadia, Jasmine, Lidia? Cerca di darci una risposta la sociologa Porpora Marcasciano con il suo ultimo lavoro, ”Favolose narranti. Storie di transessuali”. Un libro che racconta uno spaccato attuale della nostra società, spesso emarginato ma soprattutto pochissimo conosciuto.
E’ attraverso le storie di vita delle protagoniste che l’esperienza trans si libera, nel corso dell’avvincente narrazione, dei pregiudizi e delle strumentalizzazioni politiche, affrontando temi delicati come l’inserimento lavorativo, il rapporto con la medicina, gli aspetti psicologici e sociali, l’impegno politico.
Si tratta di un affascinante viaggio nell’animo umano che ci offre diversi spunti di riflessione: “noi trans siamo migranti in tutti i sensi, migranti di genere e in genere, verso un corpo più nostro, verso un paese più familiare, verso una terra meno ostile”.
Ai racconti personali si affiancano alcuni saggi di testimoni privilegiati - psicologi, registi, giornalisti – che hanno avuto la possibilità di entrare in contatto con la realtà transessuale. Il risultato è quello di avere più punti di vista a confronto, interni e esterni, che rendono la transessualità – che non è altro che un’esperienza dell’umano - più familiare, alleggerita di luoghi comuni e banalizzazioni.

La vita è imprevedibile: quando i giochi sembrano fatti avviene qualcosa di inaspettato che scombina l’ordine delle cose e se non si è predisposti al cambiamento ci si schianta. Io fortunatamente sono riuscita a rimettermi in gioco, la vita mi ha ritirato in ballo e io…mi sono messa favolosamente a ballare”.

La transessualità è estremamente disturbante, perché mostra in parte qualcosa che investe alla radice l’esistenza di ciascun essere umano, ciò che si può definire con l’aforisma Panta Rei. Il transessuale incarna infatti la contiguità delle cose l’una all’altra, con il suo corpo materializza quello che il genere umano tende a negare o perlomeno ha bisogno di depotenziare nella sua violenta ineluttabilità: che niente resta uguale per sempre”.

Porpora Marcasciano è sociologa e vicepresidente del movimento italiano Transgender. Ha già pubblicato “Tra le rose e le viole” e “Antologaia. Genere, sesso e cultura degli anni settanta”. Il libro Favolose narranti, storie di transessuali, è edito da Manifestolibri. 191 pagine a un prezzo di 18 euro.

martedì 28 ottobre 2008

Hyènes - D. Diop Mambéty (1992)

Cosa può succedere se, da un momento all'altro, vengono riversati miliardi di dollari su persone che prima erano abituate a sopravvivere, spesso dignitosamente, con poco? E se assieme ai miliardi arrivano anche "merci", elettrodomestici, nuovi edifici? Se fossimo negli Stati Uniti parleremmo presumibilmente di "mutui subprime", ovvero concessi solo per permettere a chi non ne aveva la possibilità di accedere alle merci prodotte da un mercato capitalista in perenne necessità di espandersi per non atrofizzarsi ("recedere").
Nell'Africa ed in tanti Paesi del cosiddetto "mondo in via di sviluppo" si è fatta esattamente la stessa cosa, con i grandi istituti monetari mondiali ad elargire prestiti enormi, in cambio di mercati sempre più deregolamentati e possibilità per il capitale, le multinazionali ed i beni di consumo di muoversi liberamente e sfrenatamente. Fino al collasso. Fino ad un debito in crescita costante per via di interessi impossibili da rimborsare. Fino all'esclusione dalla vita sociale di tutti coloro che non potevano permettersi – perchè deboli, perchè troppo miseri, perchè meno arrivisti – di rivestire un ruolo "utile" nel mercato (sono solo due: venditore o acquirente).

Tutto questo succedeva nel Sud del mondo ben prima che scoppiasse l'intero sistema capitalista che ora, anche nel ricco Nord, si è dovuto togliere quel velo di apparente seducenza, mettendosi definitivamente a nudo nella sua fragilità. Di questo parla, con toni lirici ed evocativi, campi lunghi e panoramiche che rimandano con evidenza al western ed una colonna sonora enfatica ma mai pesante (musiche composte dal fratello del regista), un grande artista senegalese scomparso dieci anni fa: Dibril Diop Mambety.

La storia narrata è la seguente: Linguère Ramatou è una donna ricca (non a caso) "come la Banca Mondiale", che rientra a Colobane, suo misero villaggio natale (con tanto di municipio pignorato) dopo esserne stata scacciata da ragazza con l'accusa falsa ed infamante di essere una prostituta. Colpevole di questo gesto vigliacco Draman Dramé, gestore della drogheria-bar del paese, attualmente sposato ma, da giovane, amante segreto della diciassettenne bella e (allora) povera Linguère. Quando lei rimase incinta, Draman rinnegò il figlio e, comprando due testimoni con due bottiglie di vino, fece accusare Linguère di prostituzione e la fece cacciare, condannandola per davvero a dover vendere il proprio corpo per vivere. Ora, l'ex-prostituta divenuta donna di mondo (o donna globalizzata, potremmo dire, con tanto di servitrice orientale) ritorna ricchissima e promette 100 miliardi al villaggio, se Draman verrà ucciso.
Gli abitanti reagiscono sdegnati ma lo sdegno dura ben poco. È sufficiente iniettare un po' di liquidità nelle loro povere ed assetate tasche per dare il via ad una spietata (ed ipocrita perchè mai dichiarata) caccia all'uomo ("Il mondo delle iene è arrivato", è il commento soddisfatto della malvagia donna).
Linguère non ha dimenticato l'infanzia difficilissima, non si fa abbindolare dalle false parole dolci del sindaco nei suoi confronti, né da quelle di Draman che le dice di averla fatta partire per il suo bene, perchè potesse arricchirsi altrove. Linguère ragiona solo in termini di vendetta e distruzione (è, anche fisicamente, una donna "d'acciaio", a seguito di un incidente aereo di cui è l'unica sopravvissuta) ed ha i soldi per farlo. Si compra la giustizia per avere quella che ritiene la sua giustizia. ("Il mondo ha fatto di me una puttana. Io farò del mondo un bordello").

A seguito del suo arrivo nel villaggio, tutti si riversano nella bottega di Draman e comprano le merci più costose, in quantità smodate, molti indossano scarpe all'ultima moda provenienti dal Burkina Faso. Draman comincia a capire che la terra gli sta cedendo sotto i piedi e cerca la protezione dell'esercito. Il sergente gli risponde che dovrebbe essere contento perchè ora i soldi girano e sta facendo più affari.
Non manca un richiamo al ruolo della religione in questa corsa al capitalismo sfrenato: in una delle scene più surreali, Draman si trova all'interno di una chiesa, situata sotto il municipio e raggiungibile attraverso "la strada del paradiso"; guarda su una televisione immagini strazianti di giovani donne africane con marmocchi dalla pancia gonfia attaccati ai loro seni rinsecchiti poi alza la testa e vede una statua della Madonna circondata da due nuovissimi ventilatori.
Finisce quasi per sentirsi in colpa: in fin dei conti il villaggio sta aspettando solo la sua morte per entrare in possesso di tutti i 100 miliardi promessi da Linguère e già sul tavolo del sindaco compare un modellino con la Colobane che sarà.

Passata la prima sbornia, il sindaco ed il professore del paese si recano da Linguère e le chiedono di investire per far rinascere il villaggio. Terreni fertili, ricchezze minerarie: Colobane pare avere tutto, se solo ci fosse qualche investimento teso a migliorare la vita degli abitanti, anziché ad arricchire gli investitori. Linguère, nella sua follia (auto)distruttrice non ci pensa neanche: vuole solo il risultato immediato, la vendetta (che in realtà comporta per gli autoctoni anche rinuncia ai propri valori, sconvolgimento delle proprie vite e relazioni sociali,...) in cambio del denaro e del conseguente sviluppo che andrà come sempre a vantaggio di pochi.
Il giudizio finale è già scritto: le avide iene divoreranno (e faranno addirittura sparire) il corpo di Draman. La costruzione di una nuova Coloban può cominciare.

venerdì 17 ottobre 2008

Entre les murs (L. Cantet) 2008

Tratto dall'omonimo libro di François Bégaudeau – che interpreta anche il protagonista del film - "Entre les murs" è il racconto di un anno scolastico "all'interno delle mura" di una scuola francese di periferia, vissuto assieme al professor Bégaudeau, giovane e dai modi accattivanti, capace di alternare la fermezza alla più ampia comprensione.
Qua, fortunatamente, il film evita il primo grosso rischio: quello di trasformare l'insegnante in eroe. François non lo è. Insegna in una scuola di periferia, in mezzo ad alunni difficili, che hanno alle spalle situazioni familiari pesanti e sono in buona parte figli francesi di genitori nati in diverse parti del mondo. François è un uomo, un uomo normale, che ha reazioni umane, sbaglia, tituba, è messo in crisi dalla complessità del "mondo" che si trova di fronte ogni mattina.
Può essere il francese – definito scherzosamente ma non troppo da alcuni alunni come una "lingua morta" - a salvare questi ragazzi? François ne pare convinto, anche se deve continuamente alternare il suo ruolo di insegnante ad uno diverso e, se possibile, ancora più complesso: quello di "antenna", in grado di captare non solo i malesseri tipici dell'età adolescenziale, di tutti gli adolescenti, ma anche quelli - più recenti, di "ultima generazione", che hanno portato alle rivolte nelle banlieues - di giovani che comprendono subito di far parte di una classe sociale svantaggiata, che non avrà mai alcuna speranza di competere con i coetanei più fortunati.
Già, perchè anche se il film si chiama – e si realizza interamente – "dentro le mura" (della scuola), tutto ciò che ne resta fuori entra prepotentemente nella vita di questi ragazzi ed al giovane professore risulta sempre più difficile non tenerne conto, far finta che esistano solo i voti sul registro e le note di demerito, benchè un suo collega lo inviti a "non mischiare i ruoli" di insegnante e genitore.
Ma come fare quando il ragazzo più educato e maturo della classe, figlio di cinesi, si vede arrestata la madre perchè senza permesso di soggiorno, mentre il padre deve nascondersi per lo stesso motivo ed il ragazzino stesso forse potrà correre dei rischi una volta maggiorenne? Come fare quando si viene a sapere che il ragazzo più indisciplinato della classe, a casa aiuta la madre, lava i piatti e pulisce ed è continuamente minacciato dal padre?
François cerca di resistere all'urto di questa realtà difficile, di pararne i colpi ricorrendo all'ironia, divertendosi alle battute più sfacciate dei suoi allievi e cercando sempre di insegnare loro, attraverso il francese, i valori del dialogo, del rispetto, della democrazia.
Ma non è facile quando, oltre a situazioni familiari complicate, si aggiunge anche una fragilità sociale spaventosa che spinge i giovani di oggi a trovare nei cantanti rap e negli eroi di colore del calcio francese ben più che dei miti, ma veri e propri modelli cui ispirarsi, veri pilastri cui appoggiare la propria debolezza e le proprie frustrazioni e trasformarle in rivalsa. Di fronte a queste icone in carne ed ossa, il francese (ma anche la matematica, le scienza artistiche e tecniche,...) è ben poco. A che potrà servire quando il linguaggio universale del rap e quello manesco e volgare del machismo bastano per essere ritenuti "boss" della classe?
Lo scontro è evidentemente impari: da un lato gli insegnamenti che i professori validi cercano di passare agli allievi; dall'altro, i modelli che, "fuori dalle mura", raccolgono e commercializzano il disagio sociale, facendone strumento di marketing, esaltando le figure dei duri, degli irrispettosi, dei prevaricatori, per trasformale in mode. È troppo per un professore? Probabilmente sì, ed infatti anche l'ottimo prof. Bégaudeau finisce per essere schiacciato dall'ingranaggio e per dover rientrare negli schemi di giudizio di una scuola che ormai pare decisamente superata dai tempi e dalle mutazioni: note, voti, espulsioni sono minacce difficili da comprendere per chi non riconosce alcun valore all'alternativa, per chi si sente etichettato, fin da adolescente, come un teppista, uno senza speranze ("gentil, pas gentil", dice un professore che già conosce i ragazzi, scorrendo l'elenco della classe assieme ad un insegnante appena arrivato).

Davvero, ci si dovrebbe chiedere, cosa si offre a questi ragazzi – maleducati ed irriverenti, è vero, ma anche terribilmente spontanei e capaci all'occorrenza di un incredibile spirito di solidarietà – per convincerli della bontà della scelta di studiare e rispettare le regole della "civile" convivenza fra adulti? Perchè dovrebbero farlo?
Vincitore a Cannes 2008 della Palma d'oro.

sabato 4 ottobre 2008

Pickpocket - R.Bresson (1959)

È giusto che esistano persone al di sopra della legge non per il loro potere ed il loro peso politico o economico – questo avviene nella realtà e pare che non sia lecito chiedersi se sia giusto o meno – ma per le loro "capacità"? E che dire se queste "capacità" sono di ostacolo alla civile convivenza così come l'abbiamo sempre immaginata?

Michel, giovane francese di modeste condizioni, influenzato dalle numerose letture sovversive, diventa borseggiatore di professione, dapprima quasi per caso, spinto dalla necessità, e con scarsi risultati, poi, via via, con sempre maggiore convinzione e destrezza. Dopo alcuni furtarelli di poco conto e dopo aver rischiato più volte di essere arrestato, egli incontra un borseggiatore professionista che gli fa da maestro. I due, in compagnia di un terzo complice, finiranno per compiere "imprese" sempre più audaci, ma tutti finiranno presi dalla polizia.


Dunque, questo è il giudizio finale di Bresson? I ladri sono cattivi – benché filosofi e colti, come Michel – e dunque stanno in galera mentre gli onesti sono quelli che stanno fuori? Neanche per sogno. La storia di amore ed affetto che si intreccia con il progredire della carriera criminale di Michel, infatti, pare ribaltare, o perlomeno sospendere, il giudizio. Per tutto il racconto, Jacques, unico amico di Michel, lo rimprovera per il suo comportamento e le frasi irriguardose nei confronti della polizia.
Cerca di "riportarlo sulla retta via", di dargli dei numeri di persone a cui chiedere un lavoro e si innamora di Jeanne, povera ragazza abbandonata dalla famiglia nonché vicina di casa della madre di Michel. Non solo. Jacques va anche a trovare quest'ultima. L'anziana signora, gravemente malata, ormai moribonda, è stata infatti quasi abbandonata dal figlio che, forse troppo intento a pensare ai suoi libri, alla sua carriera, ai suoi esercizi di destrezza per allenare le dita, non la va mai a trovare ma si limita a farle avere dei soldi (dopo che, prima di diventare borseggiatore, gliene aveva addirittura sottratti). Insomma, Jacques e Michel sembrano diametralmente opposti e pare non esservi dubbio su chi dei due sia dalla parte della ragione e chi del torto.
Tuttavia, ecco che sul finire del film – dopo che Michel rientra dall'Inghilterra dove aveva passato due anni, "facendo colpi bellissimi" e poi scialaquando tutto - si viene a scoprire che Jeanne ha avuto una bambina da Jacques, il quale - forse per vendetta del fatto che Jeanne si rifiutava di sposarlo - se n'è andato improvvisamente, senza lasciare tracce di sé.
Michel decide di farsi carico di Jeanne e della bambina: si trova un lavoro, un lavoro vero, con tanto di divisa e busta paga e le cose sembrano anche funzionare. Senonchè, finirà per cedere di nuovo, dimostrando che la sua abilità e la sua filosofia erano in realtà degenerate in mania, ossessione, in un'incapacità di farne a meno della quale egli stesso – una volta dietro alle sbarre – si rende finalmente conto, pentendosi. Dunque, perchè vivere?, si chiede Michel. La risposta nell'abbraccio e nei baci finali attraverso le sbarre. Peccato, conclude Michel, che per capirlo abbia dovuto percorrere una strada così lunga.
Partito come teorico del ribaltamento delle prospettive da cui guardare il mondo, convinto del guadagno che una società avrebbe tratto nel permettere a certi uomini geniali di essere al di sopra della legge, tanto da discorrerne più volte anche con un ispettore di polizia che lo sospetta, Michel pare infine trovare la risposta al suo malessere in quella "normalità" che prima tanto evitava.



La regia di Bresson è come al solito asciutta e rigorosa, attentissima ai particolari, che rivestono – in questo come in altri lavori – un'importanza del tutto decisiva. Invece, a differenza che in altri film, come "Un condannato a morte è scappato", in cui era il fuori campo a parlare (con tutto quello che ne può guadagnare la suspence), qui le azioni principali – i borseggi – si svolgono tutte nel fuori vista, mentre tutt'attorno regna la normalità. A restituire la giusta importanza agli abili gesti dei pickpockets, si alternano alle visioni d'insieme i particolari: dita affusolate e sinuose, tasche di giacche, asole, giornali, borsette che si aprono.


Ispettore: "Caro signore, ma questo è il mondo al contrario"
Michel: "Visto che è già al contrario, questo rischia di rimetterlo a posto"

mercoledì 1 ottobre 2008

Hèrèmakono (Aspettando la felicità) - A: Sissako (2002)

A Nouadhibou, seconda città della Mauritania – in realtà poco più che un villaggio di pescatori sulle rive dell'Atlantico – si intrecciano senza fretta alcune storie. Hèrèmakono significa "aspettando la felicità" ed è non soltanto il titolo di questo film del regista mauritano Abderrahmane Sissako, premio della critica internazionale al Festival di Cannes 2002, ma è anche il nome che viene dato in Mali e Mauritania ai luoghi come Nouadhibou.
Luoghi di passaggio, dove sembra che la vita scorra solo perchè deve scorrere, ma dove manca qualunque prospettiva ed i giovani sognano solo di andarsene verso l'Europa, verso un mondo attraente e meno duro, verso gli show della televisione.
Sissako mette in scena questa tragica realtà africana senza nascondere la sua grande malinconia per una diaspora che sottrae al continente, giorno dopo giorno, forze vitali, cultura, tradizione, e certamente anche felicità. Quella felicità che i giovani africani (ma non solo) aspettano che si presenti loro in posti come Nouadhibou, sotto forma di una barca per l'Europa o di una qualunque altra opportunità di partire.
Abdallah è un giovane maliano che ha raggiunto la madre a Nouadhibou solo per salpare. Non parla la lingua locale – l'hassanyia – e vive isolato, in casa della madre, che gli starà vicino e cercherà di farlo desistere fino all'in bocca al lupo, appena prima della partenza. Non si sente inserito nella vita locale, non potrebbe esserlo, visto che non fa niente per inserirsi: passa le giornate di attesa a leggere ed il suo principale contatto con il mondo esterno sono due "finestrelle": l'una posizionata nel muro, ad altezza-piedi, da cui ogni tanto guarda fuori la vita del paese scorrere sempre uguale; l'altra è la televisione, da cui escono varietà francesi e promesse che non saranno mai mantenute.
Pur dovendo attendere molto tempo nel villaggio, non impara che poche parole in hassaniya, benché uno spigliato ragazzino si sforzi (e si diverta) nel cercare di insegnargliene di giuste e di sbagliate, affacciato alla finestrella.
Il piccolo - che di nome fa Khatra - è un apprendista elettricista, creciuto in fretta grazie ai consigli del maestro, Maata, ex-pescatore e saggio del paese. Le loro due figure, il loro rapporto, assieme alle speculari figure della maestra e dell'apprendista di canto sono il filo rosso che collega tutto il racconto. Rappresentano, potremmo dire, il – disperato – tentativo di difendere una tradizione, una cultura, di curare la crescita della propria gioventù e di mostrarle ancora una speranza ed un senso, per non farla cedere alle lusinghe ed agli ammiccamenti che provengono dall'altro lato del Mediterraneo. Non sarà facile, da soli.
Non lo sarà perchè qualcosa si è rotto, forse irrimediabilmente, condannando civiltà antiche e semplici a scomparire, per lasciare spazio al "villaggio globale", alle merci, ai programmi televisivi ed alla cultura occidentali, dotati di mezzi nettamente più forti e dunque destinati a spazzare via tutto quello che incontrano sulla loro strada.
E a produrre "scarti umani", donne e uomini frustrati che, esclusi dalle ricchezze materiali che pure volteggiano tutt'attorno, non vedono altra prosettiva che partire, imbarcarsi, diventare "clandestini".
Qualcosa si è rotto, ci dice Sissako, con una superba allegoria della lampadina che non funziona e del "guasto interno".
Hérémakono mette in scena il dramma dell'emigrazione anche come spinta alla libertà ammazzata dalla continua cattività in cui si vengono invece a trovare i migranti clandestini, spesso impossibilitati sia a proseguire, sia a tornare indietro.

"Non c'è niente di più tragico che perdere la libertà, niente di più tragico che perdere i parenti e gli amici..davanti alle finestre con le sbarre alzo gli occhi e contemplo le stelle che brillano. Sembrano gli occhi di mia madre che mi fanno abbassare lo sguardo e sono divorato dal rimorso. Attraverso le sbarre guardo fuori dove la vita è tanto bella. QUANDO TORNERO' A CASA?"
Così canta al karaoke un signore presumibilmente cinese, venditore di orologi ed altre cianfrusaglie a Nouadhibou, nel tentativo di raggranellare qualcosa per poter fare marcia indietro ed abbandonare definitivamente il suo sogno già infranto. Non a caso, Sissako lo piazza in una stanza con la carta da parati a strisce verticali nere, che richiamano anche visivamente l'idea di una prigione.
Nanà invece è una bella ragazza che deve vendere il suo corpo, dopo aver avuto una bimba da un francese che non ha mai voluto abbandonare la sua vita in Francia per starle vicino, nemmeno dopo la morte della figlia.
Di lei Abdallah potrebbe anche innamorarsi, se non fosse ossessionato dall'idea del viaggio.
Ci sono alcuni che partono, altri che tornano cadavere, altri ancora di cui non si sa più nulla ("E' già in Spagna" "No, è ancora a Tangeri". E si sa che fa una bella differenza!). I nuovi candidati all'emigrazione si fanno fotografare davanti ad un manifesto della Tour Eiffel. Ma c'è chi ha paura di partire e non tornare più.
Il vecchio Maata è con ogni probabilità colui al quale Sissako affida il proprio pensiero. Non gli piace parlare di viaggi, non è contento quando vede la gente partire. Nella sua ultima sera, erra nel deserto assieme al giovane Khatra, portando in giro una lampadina accesa nel buio pesto. Il simbolo è più che evidente. In sottofondo, in un sottofondo impossibile, si sente il canto dell'altra coppia "maestro-discepolo", quella femminile. E' la scena più significativa del film.
Dopo la morte di Maata, Abdallah finalmente parte. Si veste da signore, tutto elegante, e lo vediamo subito arrancare con la sua valigia sulla prima duna di sabbia. Su quella stessa sabbia nella quale svanirà il giovane Khatra, con indosso la sua tuta da elettricista nuova fiammante, ma già alle prese con i primi dubbi e le prime tentazioni.
Sconsigliato a chi non ama le allegorie ed i ritmi autenticamente africani.

lunedì 29 settembre 2008

Il matrimonio di Lorna - J.P. e L. Dardenne (2008)

Il denaro, la sicurezza, il silenzio (quello del titolo originale, come spesso accade trasformato dai distributori italiani). Sono questi i pilastri su cui poggia l'ultimo film dei fratelli Dardenne, insigniti a Cannes "solo" del premio alla miglior sceneggiatura e non della Palma d'oro, perchè – così pare – già vincitori due volte del massimo riconoscimento.
Sopra e sotto i tre pilastri si agitano le frontiere sempre più diffuse ed irregolari della "fortezza Europa".
Lorna è una giovane donna albanese in Belgio, dunque un'extracomunitaria, una straniera, costretta – allo scopo di fare quello che ad una ristrettissima cerchia di persone nel mondo pare normale: scegliersi dove vivere e cercare di affermare i propri sogni e le proprie capacità con il lavoro – a mettersi nelle mani delle bande criminali che gestiscono il businness dei matrimoni combinati. Questo la porta a rimanere una persona ricattabile anche dopo aver ottenuto l'agognato pezzo di carta che attesta formalmente la sua "europeità".
Lorna infatti – una volta tolto di mezzo suo marito – dovrà a sua volta recitare il ruolo della moglie con passaporto, a favore di un russo e così via, in una spirale perversa che finisce solo per alimentare le bande mafiose, sempre più ricche, sempre più potenti e con sempre più mezzi per arruolare manodopera disposta a tutto, con buona pace della patetica retorica sulla sicurezza. Eccola la sicurezza: un grande pregio di questo lavoro sta proprio nel mettere in mostra – una volta tanto – il bisogno di sicurezza degli ultimi, dei veri deboli, potenzialmente additabili da qualunque "normale cittadino" come soggetti pericolosi, da isolare, confinare, rinchiudere. La sicurezza di cui è in cerca la protagonista – una superba Arta Dobroshi, per il 90% delle scene al centro dell'inquadratura, seguita, rincorsa, braccata dalla macchina a mano dei fratelli Dardenne – che sogna di mettere da parte un po' di soldi lavorando in una lavanderia, per aprire un bar assieme al fidanzato albanese, anche lui costretto ad una vita da clandestino, fatta di lavori pericolosissimi, quei lavori in-sicuri che gli indigeni europei lasciano volentieri al bisogno di soldi ed alla disperazione ricattabile dei clandestini.
La sicurezza è anche quella che cerca Claudy, il tossico belga che Lorna sposa per ottenere la cittadinanza in cambio di soldi; una sicurezza fatta di un mondo senza la droga, di un affetto al quale aggrapparsi per cercare di smettere. E chissà se ce l'avrebbe fatta, grazie proprio a Lorna, se non fosse stato ucciso dagli spietati burattinai che muovono i fili delle loro marionette per ingrossarsi le tasche di euro. Il denaro, si diceva. Il denaro è ovunque e spinge a tutto. Modifica i rapporti, obbliga a stringerne altri che mai si sarebbero cercati, impone di sacrificare sul suo altare la propria persona, la propria dignità, la propria vita. Terribile una scena di "ballo" forzato fra una Lorna ipnotizzata, che si crede incinta di Claudy, ed il russo che deve sposare.
Il denaro ha una funzione utile solo se poco e finalizzato a qualcosa, ci dicono i fratelli Dardenne. Cloudy, quando decide di farla finita con la droga, affida la busta gialla con tutti i suoi averi a Lorna, per non comprarsi l'eroina, chiedendole di volta in volta di dargli solo lo stretto necessario per fare la spesa, oppure comprarsi le sigarette o una bicicletta sulla quale pedalare tutto il giorno per distrarsi.
Cloudy è un tossico, ma visto il mondo corrotto e spietato che abbiamo costruito e nel quale sembriamo sguazzare tranquillamente, senza accorgerci della merda che ci galleggia attorno, possiamo dire che la sua figura è emblematica. Siamo tutti tossici, da avidità e menefreghismo, burattini nelle mani di chi ha deciso qual è il nostro ruolo ed eventualmente quando dobbiamo scomparire se cominciamo ad intralciare i piani. Claudy è come la maggior parte di noi: morirà senza essersene accorto.
Il silenzio infine. Il silenzio a cui sono ridotti i più fragili, coloro che sono sempre scomodi, i ricattabili che hanno bisogno di denaro, di documenti, che vivono nascosti e nella paura.
Non hanno diritto di parola, non hanno potere di ribellarsi, di far sentire la propria voce. O se ci provano, vedono sempre le proprie rivendicazioni frustrate, i propri desideri annullati. E allora, per scappare ad una morte certa, arrivano al gesto clamoroso. E per sottrarsi ad una folle prigionia, si inventano un mondo diverso, forse assurdo ma certo migliore. Già salvatisi, aspettano fiduciosi che qualcuno li venga a salvare.

giovedì 25 settembre 2008

Les coeurs brulés - A. el Maanouni (2007)


Documentarista ed autore tv, il sessantaquattrenne marocchino Ahmed el Maanouni realizza il suo terzo lungometraggio in un bel bianco e nero che serve – sono parole del regista – a togliere alle immagini ogni "esteticità".
Il film del resto è duro e, dice ancora el Maanouni, autobiografico. Sostenuto dal progetto europeo "Medscreen", di promozione e diffusione del cinema arabo, dunque proiettato in numerosi festival internazionali, Les coeurs brulés narra la storia di un architetto marocchino fuggito in Francia, dove ora vive e lavora, ma tornato a casa per assistere alla lenta morte dello zio. E questo ritorno è l'occasione per il pubblico di ripercorrere assieme al protagonista le vicende dolorose che ne hanno causato la fuga e di intrecciarle con quelle, altrettando intense, che lo accolgono al suo rientro.
In più punti cantato, questo film porta con sé un'ammirevole pulsione verso la libertà. Non a caso il canto, da sempre simbolo di emancipazione, di amore e di libertà.
Cosa cerca il piccolo Amin quando scappa per i vicoli della medina di Fez, per sfuggire agli altri bambini che gli danno del "bastardo" per la sua disastrata situazione familiare e lo inseguono lanciandogli pietre, oppure per sottrarsi al dispotico zio che lo obbliga a lavorare nell'officina da fabbro assieme a lui mentre Amin preferisce andare a scuola? Anche altri, nel film, sono alla ricerca di una via di fuga da un mondo non facile e anzi ancora pieno di costrizioni e chiusure mentali, come quello maghrebino: Hourya, giovane donna, vuole sottrarsi al dispotismo del fratello che le impedisce di amare Amin. Il rasta-man, sempre con le cuffie nelle orecchie e la musica di Bob Marley sparata dentro, vuole invece scappare in Jamaica, o meglio lo fantastica tra una canna e l'altra, visto che non riesce a trovare altro che lavoretti occasionali, zero futuro e zero prospettive.
Lo zio morente non dice una parola per tutto il film e, durante le visite in ospedale, Amin si strugge, soffre, piano piano si accascia, abbandonandosi contro la parete bianca che ha alle spalle, come sopraffatto dalla tristezza dei ricordi delle violenze e delle costrizioni, ma forse anche dal fatto che è costretto a farci i conti da solo. Senza ricevere scuse, comprensioni, dichiarazioni di pentimento. Amin è solo in questo percorso doloroso di ricostruzione e rimossione della memoria, così come solo era quando – dopo la morte della madre – venne costretto a fuggire per sottrarsi alle angherie dello zio, arrivato persino a marchiarlo a fuoco con un tizzone ardente.
Tanti altri sono gli spunti che regala questo lungometraggio piuttosto breve (84min.) ma altrettanto intenso: dal richiamo all'avidità degli uomini "che avrebbero tutto ma non si fanno mai bastare niente", alla stranezza dell'animo umano, mai contento e sempre alla ricerca di altro. E proprio all'altro – o meglio all'altrove – che fa riferimento invece il verbo del titolo – bruler – con il quale si indica in tutto il maghreb anche l'atto dell'emigrare clandestinamente ("bruciare la frontiera").
Amin è dovuto sfuggire, alla ricerca – si diceva – di libertà, e pare aver trovato in Francia, se non altro, il successo professionale. Tanti altri giovani oggi decidono di partire, alla ricerca di una libertà che in molti casi è diversa: è la libertà di comprare, di sentirsi parte di un mondo ricco ed apparentemente senza limiti di spesa. Contro questo tipo di emigrazione el Maanouni scocca ogni tanto qualche freccia, come il verso di una canzone (ancora la musica) che dice: "anche se ti comprerai le Nike resterai sempre un marocchino".
Di tipo diverso, invece, è la libertà inseguita dall'emotiva Hourya, che vuole ribellarsi all'arroganza del fratello, il quale si oppone con la sua stupida autorità maschile alla storia di amore di sua sorella con Amin, che viene per questo inseguito (ancora la fuga) e poi riempito di botte. Anche Hourya vuole scappare, dunque, anche lei insegue la sua libertà, questa volta di amare e di non sentirsi più prigioniera di una mentalità opprimente. Lo propone al suo innamorato, ma Amin rifiuta, non vuole più partire.
Pur fra l'angoscia dei ricordi ed i pericoli di essere ancora picchiato, egli non si decide a tornare a Parigi, dove avrebbe tutto quello che desiderano alcuni suoi connazionali disposti a tutto pur di raggiungere l'Eldorado-Europa. Il suo posto è qua, il suo posto è a casa, in Marocco, a Fez. È qui che, a distanza di anni da quell'infanzia tormentata, fatti i conti con il passato, egli proverà a ricostruirsi la sua libertà e la sua vita. Amin decide di "accontantarsi" di questo, di non correre più verso un altrove che forse non è quel paradiso che sembra da Sud.
Non a caso, l'unica scena girata a colori -come una "rivelazione" - è quella in cui il vecchio poeta Ba Jelloul gli porge le condoglianze per la morte dello zio e (cantando) gli raccomanda di cercare la via di uscita dentro di sé, senza più scappare.