lunedì 29 settembre 2008

Il matrimonio di Lorna - J.P. e L. Dardenne (2008)

Il denaro, la sicurezza, il silenzio (quello del titolo originale, come spesso accade trasformato dai distributori italiani). Sono questi i pilastri su cui poggia l'ultimo film dei fratelli Dardenne, insigniti a Cannes "solo" del premio alla miglior sceneggiatura e non della Palma d'oro, perchè – così pare – già vincitori due volte del massimo riconoscimento.
Sopra e sotto i tre pilastri si agitano le frontiere sempre più diffuse ed irregolari della "fortezza Europa".
Lorna è una giovane donna albanese in Belgio, dunque un'extracomunitaria, una straniera, costretta – allo scopo di fare quello che ad una ristrettissima cerchia di persone nel mondo pare normale: scegliersi dove vivere e cercare di affermare i propri sogni e le proprie capacità con il lavoro – a mettersi nelle mani delle bande criminali che gestiscono il businness dei matrimoni combinati. Questo la porta a rimanere una persona ricattabile anche dopo aver ottenuto l'agognato pezzo di carta che attesta formalmente la sua "europeità".
Lorna infatti – una volta tolto di mezzo suo marito – dovrà a sua volta recitare il ruolo della moglie con passaporto, a favore di un russo e così via, in una spirale perversa che finisce solo per alimentare le bande mafiose, sempre più ricche, sempre più potenti e con sempre più mezzi per arruolare manodopera disposta a tutto, con buona pace della patetica retorica sulla sicurezza. Eccola la sicurezza: un grande pregio di questo lavoro sta proprio nel mettere in mostra – una volta tanto – il bisogno di sicurezza degli ultimi, dei veri deboli, potenzialmente additabili da qualunque "normale cittadino" come soggetti pericolosi, da isolare, confinare, rinchiudere. La sicurezza di cui è in cerca la protagonista – una superba Arta Dobroshi, per il 90% delle scene al centro dell'inquadratura, seguita, rincorsa, braccata dalla macchina a mano dei fratelli Dardenne – che sogna di mettere da parte un po' di soldi lavorando in una lavanderia, per aprire un bar assieme al fidanzato albanese, anche lui costretto ad una vita da clandestino, fatta di lavori pericolosissimi, quei lavori in-sicuri che gli indigeni europei lasciano volentieri al bisogno di soldi ed alla disperazione ricattabile dei clandestini.
La sicurezza è anche quella che cerca Claudy, il tossico belga che Lorna sposa per ottenere la cittadinanza in cambio di soldi; una sicurezza fatta di un mondo senza la droga, di un affetto al quale aggrapparsi per cercare di smettere. E chissà se ce l'avrebbe fatta, grazie proprio a Lorna, se non fosse stato ucciso dagli spietati burattinai che muovono i fili delle loro marionette per ingrossarsi le tasche di euro. Il denaro, si diceva. Il denaro è ovunque e spinge a tutto. Modifica i rapporti, obbliga a stringerne altri che mai si sarebbero cercati, impone di sacrificare sul suo altare la propria persona, la propria dignità, la propria vita. Terribile una scena di "ballo" forzato fra una Lorna ipnotizzata, che si crede incinta di Claudy, ed il russo che deve sposare.
Il denaro ha una funzione utile solo se poco e finalizzato a qualcosa, ci dicono i fratelli Dardenne. Cloudy, quando decide di farla finita con la droga, affida la busta gialla con tutti i suoi averi a Lorna, per non comprarsi l'eroina, chiedendole di volta in volta di dargli solo lo stretto necessario per fare la spesa, oppure comprarsi le sigarette o una bicicletta sulla quale pedalare tutto il giorno per distrarsi.
Cloudy è un tossico, ma visto il mondo corrotto e spietato che abbiamo costruito e nel quale sembriamo sguazzare tranquillamente, senza accorgerci della merda che ci galleggia attorno, possiamo dire che la sua figura è emblematica. Siamo tutti tossici, da avidità e menefreghismo, burattini nelle mani di chi ha deciso qual è il nostro ruolo ed eventualmente quando dobbiamo scomparire se cominciamo ad intralciare i piani. Claudy è come la maggior parte di noi: morirà senza essersene accorto.
Il silenzio infine. Il silenzio a cui sono ridotti i più fragili, coloro che sono sempre scomodi, i ricattabili che hanno bisogno di denaro, di documenti, che vivono nascosti e nella paura.
Non hanno diritto di parola, non hanno potere di ribellarsi, di far sentire la propria voce. O se ci provano, vedono sempre le proprie rivendicazioni frustrate, i propri desideri annullati. E allora, per scappare ad una morte certa, arrivano al gesto clamoroso. E per sottrarsi ad una folle prigionia, si inventano un mondo diverso, forse assurdo ma certo migliore. Già salvatisi, aspettano fiduciosi che qualcuno li venga a salvare.

giovedì 25 settembre 2008

Les coeurs brulés - A. el Maanouni (2007)


Documentarista ed autore tv, il sessantaquattrenne marocchino Ahmed el Maanouni realizza il suo terzo lungometraggio in un bel bianco e nero che serve – sono parole del regista – a togliere alle immagini ogni "esteticità".
Il film del resto è duro e, dice ancora el Maanouni, autobiografico. Sostenuto dal progetto europeo "Medscreen", di promozione e diffusione del cinema arabo, dunque proiettato in numerosi festival internazionali, Les coeurs brulés narra la storia di un architetto marocchino fuggito in Francia, dove ora vive e lavora, ma tornato a casa per assistere alla lenta morte dello zio. E questo ritorno è l'occasione per il pubblico di ripercorrere assieme al protagonista le vicende dolorose che ne hanno causato la fuga e di intrecciarle con quelle, altrettando intense, che lo accolgono al suo rientro.
In più punti cantato, questo film porta con sé un'ammirevole pulsione verso la libertà. Non a caso il canto, da sempre simbolo di emancipazione, di amore e di libertà.
Cosa cerca il piccolo Amin quando scappa per i vicoli della medina di Fez, per sfuggire agli altri bambini che gli danno del "bastardo" per la sua disastrata situazione familiare e lo inseguono lanciandogli pietre, oppure per sottrarsi al dispotico zio che lo obbliga a lavorare nell'officina da fabbro assieme a lui mentre Amin preferisce andare a scuola? Anche altri, nel film, sono alla ricerca di una via di fuga da un mondo non facile e anzi ancora pieno di costrizioni e chiusure mentali, come quello maghrebino: Hourya, giovane donna, vuole sottrarsi al dispotismo del fratello che le impedisce di amare Amin. Il rasta-man, sempre con le cuffie nelle orecchie e la musica di Bob Marley sparata dentro, vuole invece scappare in Jamaica, o meglio lo fantastica tra una canna e l'altra, visto che non riesce a trovare altro che lavoretti occasionali, zero futuro e zero prospettive.
Lo zio morente non dice una parola per tutto il film e, durante le visite in ospedale, Amin si strugge, soffre, piano piano si accascia, abbandonandosi contro la parete bianca che ha alle spalle, come sopraffatto dalla tristezza dei ricordi delle violenze e delle costrizioni, ma forse anche dal fatto che è costretto a farci i conti da solo. Senza ricevere scuse, comprensioni, dichiarazioni di pentimento. Amin è solo in questo percorso doloroso di ricostruzione e rimossione della memoria, così come solo era quando – dopo la morte della madre – venne costretto a fuggire per sottrarsi alle angherie dello zio, arrivato persino a marchiarlo a fuoco con un tizzone ardente.
Tanti altri sono gli spunti che regala questo lungometraggio piuttosto breve (84min.) ma altrettanto intenso: dal richiamo all'avidità degli uomini "che avrebbero tutto ma non si fanno mai bastare niente", alla stranezza dell'animo umano, mai contento e sempre alla ricerca di altro. E proprio all'altro – o meglio all'altrove – che fa riferimento invece il verbo del titolo – bruler – con il quale si indica in tutto il maghreb anche l'atto dell'emigrare clandestinamente ("bruciare la frontiera").
Amin è dovuto sfuggire, alla ricerca – si diceva – di libertà, e pare aver trovato in Francia, se non altro, il successo professionale. Tanti altri giovani oggi decidono di partire, alla ricerca di una libertà che in molti casi è diversa: è la libertà di comprare, di sentirsi parte di un mondo ricco ed apparentemente senza limiti di spesa. Contro questo tipo di emigrazione el Maanouni scocca ogni tanto qualche freccia, come il verso di una canzone (ancora la musica) che dice: "anche se ti comprerai le Nike resterai sempre un marocchino".
Di tipo diverso, invece, è la libertà inseguita dall'emotiva Hourya, che vuole ribellarsi all'arroganza del fratello, il quale si oppone con la sua stupida autorità maschile alla storia di amore di sua sorella con Amin, che viene per questo inseguito (ancora la fuga) e poi riempito di botte. Anche Hourya vuole scappare, dunque, anche lei insegue la sua libertà, questa volta di amare e di non sentirsi più prigioniera di una mentalità opprimente. Lo propone al suo innamorato, ma Amin rifiuta, non vuole più partire.
Pur fra l'angoscia dei ricordi ed i pericoli di essere ancora picchiato, egli non si decide a tornare a Parigi, dove avrebbe tutto quello che desiderano alcuni suoi connazionali disposti a tutto pur di raggiungere l'Eldorado-Europa. Il suo posto è qua, il suo posto è a casa, in Marocco, a Fez. È qui che, a distanza di anni da quell'infanzia tormentata, fatti i conti con il passato, egli proverà a ricostruirsi la sua libertà e la sua vita. Amin decide di "accontantarsi" di questo, di non correre più verso un altrove che forse non è quel paradiso che sembra da Sud.
Non a caso, l'unica scena girata a colori -come una "rivelazione" - è quella in cui il vecchio poeta Ba Jelloul gli porge le condoglianze per la morte dello zio e (cantando) gli raccomanda di cercare la via di uscita dentro di sé, senza più scappare.

domenica 21 settembre 2008

Clando - J.M. Teno (1996)

Lavoro complesso, questo film di Jean Marie Teno, che si apre e si chiude con una camera-car in mezzo a strade trafficate e polverose e che nella parentesi compresa in mezzo ci racconta – con una struttura narrativa densa di flashback, che richiede l'attenzione dello spettatore anche per il continuo mostrarsi di particolari che poi si rivelano importanti – il percorso umano e politico del protagonista: Sobgui, informatico camerunese arrestato e torturato per la contiguità con gli oppositori al "regime democratico" di Paul Biya, quindi licenziato e finito quasi per caso a fare il tassista-clandestino (senza licenza) per campare e mantenere la famiglia.
È un film duro, a tratti molto politico, sicuramente problematico, ma in cui alla fine Teno non esita a prendere posizione. In apertura siamo in Camerun, a metà degli anni '90, ed il fenomeno dei tassisti clandestini – che fa ovviamente molto arrabbiare quelli in regola – pare dilagare. La polizia, però, anziché perseguire i tassisti abusivi, sembra invece essere solidale con loro.
Si tratta probabilmente di uno dei numerosi casi – diffusi dappertutto si viva male e in Africa purtroppo particolarmente frequenti – di illegalità tollerate in quanto sistema di "ammortizzazione sociale", che impedisce l'accendersi di rivolte molto più pericolose per i governi rispetto ad un semplice sciopero dei tassisti regolari che al massimo finirà per aumentare ancor di più la guerra tra poveri e dividere il popolo.
Ancora una volta, dunque, a confermarsi è il fatto che parole quali giustizia, legge, rispetto delle regole siano in realtà vuote e pronte a riempirsi di significati diversi, a seconda delle diverse convenienze di chi ha il potere tra le mani e come unico obiettivo quello di tenerlo.
Sobgui è un giovane sposato, ha un lavoro, è informatico, ma ha anche il grave difetto di fare politica e di farla dalla parte "sbagliata", cioè quella contraria al repressivo presidente. Non compie gesti violenti, ma si limita ad aiutare degli studenti nella stampa di alcuni volantini. Tanto basta per farlo rapire e torturare con bastonate sotto le piante dei piedi.
Rinchiuso in carcere a tempo indeterminato, senza processo né avvocato, viene infine liberato una volta che le elezioni nel Paese sono passate e, dunque, la "democrazia" è stata riaffermata con il voto popolare (che ovviamente ha dato la vittoria al presidente).
Stanco del clima di violenza che si vede attorno, sconvolto per quanto ha subito, per i tradimenti, le soffiate, le vendette, i giochi sporchi e la corruzione, avvelenato da tutto questo, Sobgui decide di partire verso la Germania. Là, precisamente a Colonia, incontrerà un gruppo di attivisti che si occupano della tutela dei rifugiati e cercherà la vicinanza e l'appoggio della comunità camerunese.
Da questo momento, dalla decisione di partire, tutto il film è diviso in due parti: da un lato il presente a Colonia, con l'affetto di una ragazza del gruppo di attivisti e la vicinanza della comunità camerunese e dall'altro il ricordo – che piano piano riaffiora, con tutto il suo carico di angosce – di quello che gli era successo dopo il rapimento e le torture.
A costituire il "filo rosso" che tiene assieme questa struttura intrecciata di flashback sono una leggenda che parla di un cacciatore che lascia il proprio villaggio per cercare cibo e torna sporco, affamato e semi-incosciente, senza aver catturato nemmeno una preda, e l'incubo ricorrente di Sobgui: dentro un furgoncino della polizia, un ragazzo tiene in mano una pistola e la punta contro la guardia che sta guidando. Alcuni prigionieri lo incitano: tira, tira. Un paio di mani – fra cui quella di Sobgui – sembrano invece bloccarlo ed invitarlo a riflettere.
È questa la chiave politica del film: è su questi due binari che si sviluppa tutto il processo di rielaborazione e maturazione del protagonista. Da un lato, la scelta se aspettare che la situazione nel proprio Paese cambi, come fanno molti (per debolezza, convenienza o semplicemente paura) rischiando così che sia il sistema a cambiare la gente, oppure la scelta della lotta e della resistenza armata, contro presidenti dispotici, appoggiati dall'Occidente, ed élites corrotte che costringono la stragrande maggioranza della popolazione ad accontentarsi di un futuro miserrimo e privo di libertà.
Dall'altro, il ragionamento sul senso del "partire", del lasciarsi dietro le spalle un incubo (una prigione all'aria aperta, una repressione continua, come Teno ci dipinge il Camerun di quegli anni) per poi ritrovarsi in un posto che non ti accetta, che ti chiede (attraverso l'imperativo dell'integrazione) di rinnegare tutto ciò che ti appartiene, per poi comunque non accettarti e trattarti sempre e solo come un "negro".
Questi due filoni – la legittimità o meno della ribellione violenta e la rinuncia o meno al proprio mondo per "integrarsi" in un altro – sono affrontati con maturità da Teno che ne fa l'oggetto di interessanti ed animate discusisoni che Sobgui ha rispettivamente con la ragazza tedesca con cui inizia una relazione e con Rigobert, un connazionale più vecchio ed enormemente disilluso, divorziato da una donna tedesca, con dei figli "bravi tedeschi" che non può nemmeno vedere.
Le teorie del socialismo africano, la fragilità del migrante – a maggior ragione se vittima di tortura – sempre alle prese col proprio passato, ma anche gravato delle aspettative che i parenti hanno su di lui, l'ammirazione ma al tempo stesso la rabbia verso l'Europa, il furto continuo (di giovani, di culture, di idee) che l'Africa è tuttora costretta a subire sono altri temi importanti che il film suggerisce senza poterli approfondire.
Jean Marie Teno, documentarista impegnato, alle prese per la prima volta con un racconto, dopo averci mostrato il processo di maturazione di Sobgui, averne sottolineato i dubbi e le incertezze, chiude in maniera piuttosto netta, addirittura spiazzante rispetto alla problematicità messa sullo schermo fino a quel momento. Sobgui decide. Decide di rientrare a casa e che è arrivato il momento di passare all'azione.
"Non voglio più attendere"

venerdì 19 settembre 2008

Les indigènes - R. Bouchareb (2006)

Si sono sentiti e letti commenti molto divergenti su questo lavoro del regista francese di origine algerina Rachid Bouchareb, i cui 4 protagonisti hanno vinto assieme il premio per il miglior attore al Festival di Cannes 2006 (più modestamente, il film si è aggiudicato lo Human Rights Nights Festival di Bologna di quest'anno). In particolare, l'accusa da alcuni rivolta a Bouchareb è quella di aver omaggiato i soldati africani (pieds noirs) che, dalle colonie francesi, si sono arruolati fra le truppe alleate contro gli invasori tedeschi, senza metterne in risalto le bestialità, che ritroviamo invece in opere come La Ciociara. Il più grande pregio del film, al contrario, secondo altri, è proprio quello di aver squarciato un velo su una pagina di storia dimenticata e di aver reso giustizia a uomini coraggiosi, disinteressati, quanto maltrattati dallo Stato francese che ha sempre disconosciuto i loro meriti e per anni ha bloccato le loro pensioni (e tuttora latita).
La visione che qui si propone è leggermente diversa, in quanto ciò che interessa sottolineare, all'interno di quello che potrebbe essere considerato solo l'ennesimo film di guerra – con tutto il patetico e celebrativo che si accompagna generalmente a questi film -, non è tanto se i soldati maghrebini fossero "buoni" o "cattivi", quanto i meccanismi ingiusti e prevaricatori che stanno alla base di tutte le gerarchie militari e di tutte le guerre, anche quelle giuste, come la liberazione dell'Europa dal nazifascismo può certamente essere definita.
Il film si apre nell'Algeria colonia francese, in cui vengono chiamati alle armi giovani che per scappare alla miseria o trovare una propria possibilità di affermazione accettano di partire volontari dopo un sommario addestramento. Fra inni ridicoli e primi pentimenti, il gruppo è pronto per salpare in direzione dell'Italia, quindi - tra '44 e primi del '45 - della Provenza e dell'Alsazia. A distinguersi sono particolarmente Said, per la sua ingenua bonarietà ed il suo servilismo – che lo porteranno ad essere il "preferito" del sergente Martinez, guadagnandosi così gli sberleffi machisti dei commilitoni che lo chiamano Aicha – e Abdelkaber, per il coraggio, la cultura, la consapevolezza dei propri diritti e le capacità comunicative. Ma in un esercito, a maggior ragione se in guerra, non c'è spazio per la cultura e la giustizia sociale: tutte le richieste di Abdelkaber – che ai soldati sia insegnato a leggere, che a lui, maghrebino, sia permesso di procedere in carriera come ad un francese, che anche agli africani sia concesso di andare in licenza come ai francesi – sono sistematicamente frustrate da un ambiente che annulla le personalità rilevanti, ambiziose, o semplicemente non-disumane (come lo stesso sergente Martinez, anch'egli vittima del meccanismo), perchè ha bisogno di marionette, di carne da macello, di miniature da guardare con il binocolo mentre, decimate passo dopo passo, avanzano verso l'obiettivo.
La storia, per quanto inevitabilmente di parte, è assolutamente vera e comune a tutte le guerre, da che mondo è mondo, almeno fino a che le guerre si combattevano corpo a corpo: i soldati vengono mandati allo sbaraglio ed i compiti più rischiosi sono affidati ai più disperati, ai meno preparati, ai disorganizzati.
Il film, nonostante l'enorme costo, scorre liscio, senza infamia e senza lode. Fino all'ultima scena: un déjà vu che Bouchareb si poteva anche risparmiare rendendo la stessa emozione in altro modo.
Il cinema – quello dei grandi – ci insegna che per raccontare storie diverse, da altri punti di vista, è possibile (anzi, consigliato) allontanarsi dai soliti cliché, dalla solita retorica, dai soliti stacchi fra le inquadrature. Un film "alla Spielberg", lo gira meglio Spielberg. Ottimo risultato di pubblico.

sabato 13 settembre 2008

La terra degli uomini rossi (M.Bechis) 2008

Presentato all'ultimo festival di Venezia, dove è stato accolto da lacrime e standing ovation ma non premiato, La terra degli uomini rossi non convince appieno. Il tema di fondo non è troppo originale, per quanto costantemente ignorato dai mass media e relegato a quell'informazione "di nicchia" che a volte rischia – paradossalmente – di far bollare in maniera automatica i propri contenuti come noiosi, poco interessanti, oppure di parte. Bechis ha sicuramente il merito di portare questo argomento ad un pubblico più vasto ma, per farlo, deve ricorrere a qualche artificio di scrittura e di regia che rischia di rendere il film a tratti caricaturale, a tratti leggermente patetico. La requisizione delle terre agli indios nel Brasile – così come avviene ed è avvenuto in tutta l'America latina, che pure negli ultimi anni ha dato importanti segnali in senso opposto – è uno di quegli argomenti spinosi e delicati che dovrebbero invece interessare tutti quanti. Non solo per un istintivo – in chi ce l'ha – senso di vergogna per l'ennesima ingiustizia che l'uomo bianco, colonizzatore spietato e incorreggibile, perpetra ai danni di chi ha pochi mezzi per difendersi. Ma anche perchè, se la vogliamo mettere su un piano puramente ecologico, le popolazioni originarie riescono a tutelare l'integrità delle foreste, la biodiversità e la fertilità della Madre Terra molto meglio dei fazenderos bianchi, interessati solo alla deforestazione selvaggia per impiantare colture intensive, spremervi cereali (non per mangiarli, oggi va di moda trasformarli in benzina...) e, naturalmente, conservare coi denti e con le armi i privilegi acquisiti grazie ai soldi ed ai diversi "governi amici" che si sono succeduti nei decenni. Per fare tutto questo, occorre che chi potrebbe avere qualcosa da ridire sia esiliato, ridotto al silenzio, messo sulla strada dell'autodistruzione. Ecco a cosa servono le riserve per gli indios nell'America latina.


Privi di ogni possibilità di andare oltre una semplice sopravvivenza, gli indios aspettano solo di essere reclutati per un lavoro a giornata in qualche fazenda, tanto per guadagnare pochi spiccioli che serviranno ad acquistare la "dose" di superalcolico necessaria a sopportare meglio la vita. È normale che, in questo ambiente opprimente, siano i giovani a risentirne di più. Infatti, i suicidi si susseguono (non solo nel film, purtroppo: sono centinaia i giovani Guaranì-Kayowa che si sono tolti la vita negli ultimi anni, senza apparente motivo).
Particolarmente odioso, davanti a tali tragedie, risulta l'atteggiamento dei padroni bianchi e di tutto il loro entourage: la villa con piscina e la servitù, le escursioni truccate che offrono ai turisti prezzolando gli indios affinchè si mostrino come particolare esotico, le reazioni stupite ("Questi, se gli dai un dito, si prendono tutto il braccio") allorché un gruppo di indios decide che è ora di riprendersi il maltolto ed occupa una porzione – minuscola – di una proprietà per abitarci e coltivarla. E proprio questo rapporto ambiguo che viene a crearsi talvolta fra padrone-usurpatore (che fa passare veri e propri sfruttamenti per concessioni ed opportunità di guadagno) e sottomesso-recluso (che in certi casi accetta queste "concessioni" di buon grado) rappresenta l'aspetto più interessante del film.
La dignità di Nadio, che rifiuta di lavorare a giornata per i bianchi pur in cambio di parecchi (per gli standard degli indios) soldi, parte dagli stessi presupposti dei giovani suicidi: che vita è questa, sembra dire l'autorevole Nadio, vale la pena di essere vissuta così? O è meglio - ed è qui che sta la forza che lo distingue - morire nel tentativo di ribellarsi?
All'estremo opposto, la serva indios che lavora nella villa dei fazenderos. Accetta passivamente tutti gli ordini, manda giù insulti pesanti ed è costretta pure a subire in silenzio squallide attenzioni sessuali. Ma guadagna. La sua quotidiana fatica le permette di avere sempre il cibo a tavola e, magari, un giorno, di comprare ai figli quelle scarpe da ginnastica che sempre più faranno gola a giovani che con ogni probabilità non hanno più tanta voglia di girare scalzi e cacciare gli animali.


Il legame che, successivamente all'occupazione degli indios, nasce fra Osvaldo, giovane aspirante sciamano, e la figlia dei bianchi vuole forse essere un abbozzo di dialogo fra diversi, che – per come stanno le cose – è del tutto improponibile. Se si vuole parlare, conoscersi, accettarsi, è fondamentale innanzitutto essere su un piano paritario. Viceversa, come Osvaldo capirà tragicamente nel finale, le ingiustizie e le prevaricazioni sono destinate ad emergere, seppellendo ogni tentativo di dialogo.


Il film si chiude nell'incertezza fra la minaccia (degli indios) di rivolta permanente fino alla riconquista delle terre sottratte e la fiducia (dei bianchi) che tutto si risolverà nel giro di qualche mese. Chi ha ragione? Ai governi latinoamericani la risposta, nella speranza che esistano altre strade per restituire a popoli calpestati da secoli e pressoché annientati, dignità, diritti e quel minimo di "sicurezza" cui tutti avrebbero diritto, ma che da sempre, ipocritamente, si invoca solo a tutela dei più forti.

venerdì 5 settembre 2008

Roma ore 11 - G: De Santis (1952)

Non c'è solo il ritratto di un'Italia pre-boom economico in questo film di De Santis, maestro del neorealismo italiano. C'è uno sguardo sincero, duro, coinvolto ma mai accondiscendente su un piccolo universo femminile. Quell'universo che esce dalle case e dalla vita domestica e, un po' per necessità, molto per voglia di libertà ed emancipazione, cerca la sua strada nel mondo. Con trucchi, furberie, arroganza, ma anche con generosità, ironia ed un lucido distacco che permette di comprendere al volo come stanno le cose.

La storia prende spunto da un vero fatto di cronaca del gennaio 1951, dall'inchiesta realizzata dal giornalista Elio Petri (poi anche aiuto-regista), sceneggiata dallo stesso De Santis, assieme – fra gli altri – a Cesare Zavattini. Un'offerta di lavoro pubblicata su un giornale, per un posto da dattilografa presso lo studio di un ragioniere, attira giovani (e meno giovani) donne in numero enorme. Nessuno sa quante di preciso, ma c'è chi parla di centocinquanta, chi addirittura di trecento. Per un solo posto, del quale non si conosce esattamente nemmeno la paga.

Lo stesso ragioniere è sorpreso da tante candidate ("l'anno scorso per lo stesso annuncio si sono presentate in dieci", dirà alla fine al commissario): è un chiaro simbolo dei tempi che stavano cambiando. La fame di lavoro è tanta ed è sorprendentemente diffusa fra tutti i ceti sociali, dalla prostituta alla nobile in disgrazia. Il lavoro degli uomini, quando c'è, è saltuario e mal pagato e non vale più il vecchio discorso che "la donna si mantiene, non si manda a lavorare", con cui il padre di una delle candidate (Simona, Lucia Bosè) rimprovera il fidanzato scapestrato della figlia.

Le prove per l'assunzione, all'ultimo piano di una vecchia palazzina in via Savoia a Roma, si susseguono, mentre la fila, fuori dalla porta e giù giù fino all'ingresso del palazzo, si ingrossa sempre di più. L'attesa è pesante, da dentro si odono solo i ticchettii delle dita sui tasti della macchina da scrivere e le facce delle donne in attesa si tendono o si rilassano a seconda della rapidità con cui sentono premere i pulsanti. ("Questa non è proprio brava", "Questa non la batte nessuno",..). L'atmosfera si elettrizza quando il ragioniere esce dalla porta ed annuncia che non ha proprio tempo per provare tutte e che, a parte le prime 30 o 40, le altre se ne possono pure andare. Luciana (Carla Del Poggio), con uno stratagemma, passa avanti a tutte e sostiene la prova, fra la rabbia generale delle colleghe, che la ricoprono di insulti all'uscita. Giustificarsi dicendo che "io c'ho bisogno perchè mio marito è disoccupato" non le servirà a nulla, anzi aumenterà ancora la rabbia e la frustrazione delle altre: "che, noi non c'abbiamo bisogno?". Ne scaturisce un parapiglia, tutte vogliono passare davanti a tutte, la paura di restare fuori dalla prova è troppo grande. La ringhiera cede, poi la scala, gradino dopo gradino: è una tragedia. Decine di ragazze sono ferite e trasportate all'ospedale, dove una di loro morirà.

L'inchiesta del commissario si conclude velocemente, dopo aver ascoltato alune ragazze (fra cui Luciana), il padrone di casa, gli inquilini, il ragioniere e la guardiana del condominio. Per la delusione dei cronisti – che hanno bisogno del colpevole perchè "la gente vuol sapere con chi deve prendersela" - l'indagine si chiude senza "mostri" da prima pagina. Tutti se ne vanno, tranne una giovane donna che si ferma ad aspettare il ragioniere perchè "il posto da dattilografa c'è ancora, forse me lo darà". Ecco lo spunto per un bell'articolo di giornale che frse non sarà mai scritto. È evidente con quest'ultima scena il tentativo degli sceneggiatori di spostare l'indice dai protagonisti (sicuramente tutti un po' imperfetti) alla società italiana del dopoguerra, stretta nella morsa fra disoccupazione, miseria, ma anche grande voglia di riscatto, da un lato, e speranze vane, cocenti disillusioni, fastidiose ingiustizie dall'altro.


"Studio privato cerca segretaria bellissima presenza"

"Ma che vogliono dì con sta bellissima?"

"Vòddì che se una è brutta può pure morì dde fame"