lunedì 16 febbraio 2009

Non c'è pace tra gli ulvi - G. De Santis (1950)

Fondi-Italia-Mediterraneo. Dopoguerra duro ed aspro come le montagne del paese natale di De Santis, maestro del neo-realismo italiano. Francesco, un giovane pastore, di rientro dopo la guerra, scopre che le sue pecore sono state rubate da un potente furfante locale, arricchitosi prestando soldi a usura. Al danno economico si aggiunge il dramma del cuore: senza soldi e senza pecore non potrà mai ricevere in sposa la bellissima Lucia (L. Bosé) i cui genitori, viceversa, la costringono a darsi al perfido profittatore.
Francesco, così, decide di riprendersi le pecore, spinto dal pensiero che "chi ruba le sue cose non è un ladro". La legge però non è d'accordo ed un processo con testimoni corrotti decreta l'imprigionamento di Francesco.
Nel frattempo, il signorotto locale, Antonio, non contento di aver strada libera con Lucia ed aver eliminato l'audace Francesco, si invaghisce della sorella di questi, Maria Grazia. Lo scandalo che scoppierà farà saltare il già programmato matrimonio di Antonio con Lucia. Evaso dal carcere, dopo un rocambolesco inseguimento sulle pietrose montagne, dal quale si salva grazie alla collaborazione degli altri pastori, Francesco otterrà la sua giustizia. Chi ci rimetterà sarà soprattutto la sorella, Maria Grazia, che si era "scelta" l'uomo sbagliato.


Sono passati 59 anni da questo film di De Santis, eppure sembra molto di più. Non per come è messo in scena (De Santis usa anzi tecniche allora avanzate per rendere al meglio il paesaggio montuoso, utilizza in maniera originale la VFC parlando, lui regista, in prima persona,...), ma per quello che ci dice. De Santis ci racconta un'Italia misera e miserrima, dove (per i poveri) la sopravvivenza decente o l'incapienza sono divise dal possedere o meno un certo numero di pecore, oppure dal combinare o meno il giusto matrimonio per la figlia. Ma dove comunque, ed è questo quello che conta, si intravede qualche segnale di ribellione, qualcuno che non accetta le ingiustizie e che capisce che è solo con l'unione dei "piccoli" e dei poveri che si potrà ottenere qualcosa, mai con la loro divisione, della quale beneficierà innanzitutto il potente di turno.

Oggi certo - per il momento - non c'è più tanto bisogno di matrimoni combinati, la ricchezza non si misura più in pecore ed il ritmo della vita non è più scandito dall'alternarsi delle stagioni per il pascolo (inverno al mare - estate in montagna). Ma quella consapevolezza è costantemente sbeffeggiata, umiliata. Siamo un'altra Italia, decisamente più ricca di allora: ma le premesse per costruire qualcosa di buono mancano del tutto.


Prima apparizione di Lucia Bosé sul grande schermo. Gli attori conferiscono drammaticità e compartecipazione al loro dolore recitando spesso con sguardi in camera.

Sweet sixteen - K. Loach (2002)

Periferia di Glasgow, classi sotto-proletarie, giovani chiamati ad avere responsabilità e preoccupazioni da adulti, senza esserlo. Liam è il quasi-sedicenne di cui Loach sceglie di mettere in scena la storia, ma certo un film non dissimile sarebbe potuto uscire se la mdp avesse seguito l'amico Pinball, o la sorella Chantelle.
Loach, dunque - ed il suo sceneggiatore Laverty - decidono di occuparsi ancora di esclusi, emarginati, persone senza speranza di essere coinvolte dal benessere e dalla ricchezza che, nel 2002, parevano dover trasformare l'intero Vecchio Continente in una gigantesca, uniforme, agiata classe borghese.
Quella di Loach è perciò contro-informazione, ancor prima che cinema. Un'informazione che dà voce a chi tradizionalmente non l'ha. Dunque, se la visione non è rassicurante - non sarà un film a cambiare le cose - possiamo ritenere che si tratti perlomeno di un buon esercizio che i nostri politicanti, opinion makers, editorialisti di redazioni mainstream dovrebbero ripetere spesso. Giusto per sapere che di sicurezza, certezza, tranquillità non ne necessitano solo le classi ricche, i cittadini a tutti gli effetti.


Liam ha la madre adorata in carcere per problemi di droga, una sorella (con un figlio) che odia la madre, un padrino spacciatore che lo massacra di botte, un solo vero amico, Pinball, che tuttavia non esita - per troppo amore - a mettersi in mezzo ai suoi piani e rovinargli tutto. Liam ha un affetto morboso per la madre, che vede solo come vittima del perfido compagno Stan, mentre in realtà si tratta di una donna debole e schiacciata, incapace di vivere una vita indipendente, serena, come vorrebbe Liam che ha un solo sogno: comprarsi un prefabbricato sul fiume per andarci a vivere con la madre appena uscirà di prigione.
Così, dopo aver rubato una grossa quantità di eroina a Stan, Liam si butta sul mercato, in società con l'inseparabile Pinball. In poco tempo arriveranno a permettersi il prefabbricato e addirittura ad impensierire il boss locale che, per questo, li invita ad entrare nella sua squadra.
L'Al Capone di turno, però, ci metterà poco a capire che il vero leader è Liam, mentre Pinball è solo una spalla e, così, impone al pupillo di sbarazzarsi dell'amico. Pinball si vendicherà avventatamente.


Ormai nelle grazie del boss, Liam comincia a conoscere i piaceri che può garantire una simile protezione: quando sua madre esce dal carcere, il boss gli concede una meravigliosa casa nel quartiere dei ricchi e si preoccupa di levare dai piedi il compagno della donna. Passata la festa, però, dopo che per qualche secondo si era forse immaginato di poter riunire tutta la famiglia (madre, Liam, sorella e nipotino), in una bella casa borghese, il risveglio sarà brusco.



Piuttosto piatto registicamente, Sweet sixteen ha l'elemento più interessante proprio nella figura di Liam, giovane uomo senza futuro, ma disposto a tutto pur di conquistare un amore impossibile: quello di sua madre.

Premio per la miglior sceneggiatura al Festival di Cannes.

sabato 14 febbraio 2009

Fame chimica (P. Vari - A. Bocola) 2003

Prodotto in cooperativa e sviluppato da un precedente documentario, "Fame chimica" è un piccolo, ben riuscito, lavoro italiano di riflessione sulle "periferie". Periferie d'Italia, periferie milanesi, periferie del mondo. Periferie non solo in senso fisico (quasi tutta la storia si svolge in Piazza Yuri Gagarin: "nome azzeccato, direi, con quello che ci metti ad arrivare in centro") ma anche psicologiche, di uomini frustrati, alla ricerca di capri espiatori per la loro vita di merda e giovani nullafacenti ed abbruttiti, tossici o bulletti.
Periferie culturali, fatte di razzismo, voglia di giustizia sommaria, botte.
Ma soprattutto, a sembrare periferico, qui più che altrove, è l'apparato statale. I tutori dell'ordine, capaci in realtà solo di intervenire per fare piazza pulita, rastrellare, portare qualcuno in Questura, rinchiudere. Oppure, ancora peggio, gli amministratori ed i politicanti, sempre pronti ad aizzare la folla per raccogliere consensi, cavalcare l'onda securitaria e razzista, dividere per controllare meglio. E poi non farsi più vedere.

Siamo a Milano, non Brasilia o Città del Messico. Eppure, nella periferia di una delle città più ricche del mondo, non c'è niente. Per i milanesi, per i meridionali, i meticci o gli immigrati. Nessuno ha niente da fare, se si esclude la comparsa di qualche caporale che offre un paio di giornate a scaricare, che di garantito hanno solo la schiena rotta, se va bene.
E così, poichè nessuno pare aver nemmeno voglia di fare qualcosa, i soldi per campare si fanno col metodo più veloce, da che mondo è mondo: lo spaccio di droga ("Stranieri o no, si è sempre trovato di tutto qui in piazza. Normale: finchè c'è chi compra ci sarà chi vende").
Li fa così uno dei due giovani protagonisti (Manuel, il capetto del quartiere), li fanno così alcuni stranieri, "affettuosamente" soprannominati "Casablanca" dagli sbirri.
Claudio, invece, figlio di un operaio invalido che deve mantenere, si fa il culo tutti i giorni nel magazzino di un supermercato, lavoratore appaltato ad una cooperativa di servizi, che in realtà di cooperativa non ha proprio un bel niente, ma si accontenta di svolgere il lavoro sporco per il padrone, che può tranquillamente godersi il panorama dall'alto del suo ufficio. Mentre sotto, dopo dieci ore di lavoro, si rischia la vita. Claudio questo non lo accetta. Così come è l'unico della sua banda a non accettare la deriva razzista dei residenti del quartiere che, sobillati dal gestore di un bar, chiedono a gran voce la creazione di un recinto per impedire agli stranieri di entrare nella piazza.


Manuel invece non si interessa a queste cose. Non riesce a pensare che esista un'altra vita, a parte quella del quartiere. Non è razzista come altri ma vede negli stranieri un pericolo per i suoi affari. Non esita a mettersi contro Claudio quando, nel mezzo di una rissa fra indigeni e stranieri, questi picchia un altro ragazzo del gruppo. Al contrario, non ha paura di rischiare grosso quando è Claudio che finisce in un'imboscata e si trova accerchiato da una banda di picchiatori dalle teste rasate.
E' lui, Manuel, il vero "eroe" da periferia. O meglio, come ci dice la VFC di Claudio (che a tratti appesantisce il film), il "prototipo dello zarro". Un eroe del tutto apolitico, privo di ogni scopo che non siano i soldi facili, lo scooter nuovo, lo sballo, le scopate nei cessi delle discoteche.
Ma con un senso incrollabile dell'amicizia e del territorio. In fondo, cos'altro gli rimane?

Non sarà dunque Manuel a voler cambiare il corso della storia: per lui il finale è già scritto, come probabilmente per molti altri componenti secondari della banda del quartiere.
Gli elementi perturbanti, che provano - volontariamente o inconsapevolmente - a cambiare le cose sono Claudio - che si ribella al razzismo contagiante ed al padrone -, alcuni fra gli immigrati del quartiere - che non accettano di essere tutti additati come delinquenti - e Maia (V. Solarino), bellissima ragazza spigliata e libertina che, come un fulmine, precipita sulla vita dei due protagonisti e in un certo modo la fulmina, accelerandone i rispettivi percorsi.

Colonna sonora per gran parte affidata a Luca "Zulu" Persico dei 99 Posse, sorta di sguardo critico sulle vicende del film, cui si perdona - grazie alla freschezza, alla credibilità, alla serie di spunti che comunque solleva - una certa ingenuità nei dialoghi.

domenica 8 febbraio 2009

Le diable probablement - R. Bresson (1977)


"Il diavolo, probabilmente". È questa la risposta che il passeggero di un autobus dà alla domanda su chi tenga le redini dell'economia e della politica, su chi sia il vero burattinaio delle povere e stolte marionette umane.
Questa discussione sulle cause della rovina del mondo, che si svolge fra sconosciuti che nemmeno si guardano in faccia, è solo uno dei dialoghi surreali di quest'opera che in effetti assomiglia molto di più ad un lavoro per il teatro che non per il cinema. In cui non esiste una “storia”, bensì solo il rapido ed inesorabile sprofondare verso l'abisso di un giovane studente, ecologista e depresso, tanto presuntuoso quanto intrigante. Ed in cui i dialoghi sono interamente rivolti verso il pubblico – per informarlo, sensibilizzarlo, indottrinarlo direbbe qualcuno.
Ciononostante, il mezzo-cinema si prende la sua rivincita con le inquadrature. Attraverso di esse, emerge molto chiaramente come il giudizio del 70enne Bresson (al penultimo film) sia netto: il pianeta è destinato alla distruzione per inquinamento massiccio ed eccessivo consumo di risorse naturali e l'uomo, abbagliato da falsi problemi che non portano a nulla (le discussioni sulla religione) o paranoie e schemi piccolo borghesi (il ricorso continuo all'indebitamento per permettersi il possesso di status symbol), non riesce a ragionare, a vedere, ad usare la testa. Che infatti, nelle inquadrature di Bresson, è spesso e volentieri lasciata fuori campo.

Chi non ci sta, chi non accetta questo modo di distruggere il bene più importante che all'uomo è stato affidato, il suo habitat, è però altrettanto cieco – nella sua rabbia – di coloro che si propone di contrastare. Emblematica a questo proposito la sequenza della riunione di un collettivo di giovani in cui si incita alla “distruzione”, in cui c'è chi si lamenta perchè le troppe domande di qualcuno impediscono a tanti di passare finalmente all'azione, a fare qualcosa, che non si sa bene cosa sia.

Charles rifiuta anche questo, sa che non servirà a niente. Ma non vede, non trova alternative. E, col suo solito incedere dinoccolato, il suo sguardo misto fra disgustato ed indifferente, il suo distacco da tutto e la sua certezza di superiorità rispetto al resto del mondo, si fa portare via da una disperazione.

Film a tesi, inconfutabili, ma proprio in quanto tali poco utili ad una discussione. E' questione di metodo, non tanto di contenuti.

Siamo proprio sicuri che la maestria registica di Bresson sia ben sfruttata (e non invece sprecata, come tante risorse naturali) nella messa in scena di scenari apocalittici, senza alcuna soluzione - se non l'isolamento ed il suicidio (e dunque, ancora, lo spreco) - per chi vi si ribella, per le menti più giovani, sensibili e capaci?

Le analisi, lucide, spietate, di Bresson non portano ad altre vie - o perlomeno alla loro ricerca - ma restano solo sentenze, letteralmente messe in bocca ai personaggi che le pronunciano freddamente , in maniera distaccata, anonima. Come è tipico per chi non ha più nessuna speranza. E se da un anziano, rigido, disilluso regista ce lo si può aspettare, fa male che questi desolanti giudizi di inutilità e questi distacchi disperati siano messi in bocca ai giovani. Amaro.

martedì 3 febbraio 2009

Appaloosa - E. Harris (2008)


Cole e Hitch (E. Harris e V. Mortensen) sono due infallibili pistoleri “riappacificatori”. Niente a che vedere con la vera idea di pace, ovviamente: siamo nel New Mexico del 1882 e semplicemente vige la legge del più forte.

Cole e Hitch si limitano, dietro lauto compenso, a portare, ad imporre anzi, il rispetto della loro legge laddove ce ne sia bisogno. Così, incaricati dai pavidi funzionari del paese di Appaloosa di arrestare le prepotenze del bandito Randall Bragg (J. Irons) – autore dell'efferato omicidio dell'ex-sindaco e dei suoi due vice – i “nostri” si fanno investire di pieni poteri sulla città e cominciano la loro opera di pulizia. Arrestato il fuorilegge, riescono a farlo processare e condannare all'impiccagione, grazie alla testimonianza di un giovane, e pentito, ex-membro della squadraccia di Bragg.

Tuttavia, durante il trasporto in treno del prigioniero verso il luogo d'esecuzione della condanna, ecco il colpo basso. Due fratelli venuti da fuori, conoscenti di vecchia data di Cole, altrettanto abili con la pistola, ingaggiati dalla banda di Bragg, rapiscono miss French (R. Zellwegger), amante e promessa sposa di Cole, e gliela mostrano legata, una pistola puntata alla tempia.

L'ordine pubblico si mischia con la “questione privata”. Cole, senza esitare, libera il prigioniero. Bragg, così, viene portato via dai compagni, assieme a miss French, debole figura femminile pronta a saltare dalle braccia di un uomo a quelle del suo vincitore. Comincia l'inseguimento.


Il genere western ha vissuto momenti migliori, forse oggi non più raggiungibili, almeno dal punto di vista fotografico e delle inquadrature.

Le battute, invece, sono più o meno sempre le stesse, così come il riferimento ai più classici “miti americani”, le basi fondanti (e pretenziosamente morali) della nazione. Sarebbe interessante quantificare con precisione l'importanza del cinema americano (e del western in particolare) sulla costruzione del “mito americano”.

Benchè la storia sia un pò piatta e l'intreccio manchi in sostanza di "elettricità", Appaloosa comunque convince (più o meno), fosse anche solo per alcune sequenze ben dirette (certo, meno epiche di tante altre del genere...) e per l'amalgama riuscita fra i due protagonisti. Duro, puro e senza sbavature il vice Hitch, vero perno della coppia e pistolero forse migliore del suo capo benchè si limiti a coprirgli sempre le spalle. Vanesio (ma più debole), deciso (ma sempre in cerca della parola giusta), Cole, che è in prima fila quando c'è da prendere una decisione, ma ci viene mostrato così evidentemente in difficoltà (non solo fisica) nel finale. Un bel ribaltamento dei ruoli, una progressiva maturazione del rapporto fra i due, che riscatta in parte la debolezza narrativa.

lunedì 2 febbraio 2009

La femme infidèle - C. Chabrol (1969)

La tranquilla vita borghese di una famiglia "da Mulino Bianco" rivoltata come un calzino ed indagata nei suoi aspetti più contraddittori.
Un marito ricco ed affermatato, una moglie bella ed affascinante, un bambino serio, studioso, angelico (anche fisicamente); una grande villa in campagna, saltuari locali da ballo, domestica tuttofare. Che volere di più?
Eppure, Charles (un antiquario interpretato da M. Bouquet) ha il sospetto che sua moglie (Hélène, S. Audran) lo tradisca. Lo scopre piano piano, senza bisogno di vederla nuda con un altro, nè di fare scenate di gelosia, lo intuisce da piccoli dettagli. Una telefonata fatta di nascosto, un controllo dalla parrucchiera, le continue uscite al cinema da sola. Il tarlo della gelosia comincia a tormentarlo e Charles si affida ad un investigatore privato. In pochi giorni, il responso: Hélène si vede regolarmente con un uomo, uno scrittore, a casa di questi.
Quando Charles si reca sul luogo del misfatto e suona il campanello, il suo atteggiamento ci pare ambiguo: si presenta e, per lo stupore del suo rivale, non gli salta addosso, non lo aggredisce. Si fa offrire da bere e comincia anzi a fare il superiore, sminuendo quel rapporto extra-coniugale: la loro è una coppia libera, in cui i coniugi si tradiscono senza problemi, raccontandosi tutto delle loro avventure. Vuole anzi vedere la camera da letto, "per immaginare meglio" dice.
Stupito da tali perversioni, ma piacevolmente sollevato, l'amante di Hélène pensa di potersi lasciare andare e si permette addirittura di intromettersi nel loro matrimonio, dando dei consigli. Hélène non è adatta a vivere in campagna, a suo parere, i coniugi dovrebbero trasferirsi vicino a Parigi, perchè una donna come lei è fatta per vivere in città.
Charles lo uccide spaccandogli la testa e getta il corpo in fondo ad un lago.


Quando Hélène troverà, nella giacca di Charles, una foto del suo amante con l'indirizzo scritto sul retro capirà tutto. Eppure, senza bisogno di parole, dimostrerà la sua solidarietà al marito bruciando quell'indizio.
Nel momento in cui gli interrogatori della polizia si fanno più insistenti il film si chiude, con un finale che più aperto non si può. Sia dal punto di vista della scrittura: Charles sarà arrestato? Il suo omicidio è stato scoperto? Non ci viene detto. Sia dal punto di vista della messa in scena, con una memorabile sequenza finale che non ci svela, tramite un trucco di regia, se i due sono destinati a riavvicinarsi o ad allontanarsi.


Dramma della gelosia? Tendenza tutta maschile ad affermare la "proprietà" su una donna ed il corrispondente diritto ad escludere tutti gli altri? Felicità della donna quando scopre che il suo uomo - che pure tradisce - è disposto finanche ad uccidere per il suo amore? Sono clichés della mentalità piccolo borghese che il film non eslcude ma certo nemmeno enfatizza.
Forse quello che Chabrol ha voluto mettere in scena - riuscendovi alla grande - è semplicemente la forza dell'amore (le ultime due battute del film sono un "Ti amo" reciproco); quell'amore che, se davvero autentico, è anche senza limiti, arriva a travolgere tutto: regole sociali, leggi, obblighi morali. Ma anche a far perdonare tutto: tradimenti, omicidi, meschinerie. Niente ha più importanza, niente deve essere giudicato, quando di mezzo c'è l'amore.
E il bello del film è che tutto avviene incredibilmente sotto tono, in maniera riflessiva, senza scenate ed isterie.
L'unico momento di ira lo si ritrova davanti al bambino, il quale - ovviamente - non riesce a leggere in quella tensione momentanea un'esplosione di ritrovata (e silenziosa) complicità fra i genitori. Per lui, è soltanto una macchia nel loro meraviglioso e ricco mondo del "Mulino Bianco". Gli manca un pezzo per completare il puzzle.