lunedì 31 agosto 2009

The millionaire - D. Boyle (2008)

Sconcerta, sinceramente, pensare al successo ottenuto da questo mediocrissimo The Millioniare di Danny Boyle agli ultimi Oscar. E se il premio per il miglior film stupisce, le altre 7 statuette (a cominciare da quella per la sceneggiatura non originale) addirittura infastidiscono.

La trama è raccontata quasi interamente facendo ricorso a numerosi flash-back. Infatti il protagonista, Jamal, è messo sotto torchio dalla violenta polizia indiana, con l'accusa (sollevata dallo stesso conduttore invidioso) di aver barato a "Chi vuol essere milionario?". Per giustificare la correttezza di tutte le risposte date (gliene manca solo una per vincere il montepremi finale e la trasmisisone - interrotta per mancanza di tempo - ripartirà da lì il giorno successivo), il giovane Jamal ripercorre tutti i passaggi della propria vita che in qualche modo hanno contribuito a portarlo a conoscenza, casualmente, delle risposte a quei quesiti.
Apprendiamo così che lui e Salim sono due fratelli che vivono in una lurida baraccopoli di Mumbay. Crescono con i miti di Bollywood nel cuore e con una voglia di riscatto che li porterà a scelte differenti. Il mite Jamal seguirà la strada dell'onestà e si darà da fare con lavori umili, mentre lo spietato Salim diventerà, angheria dopo angheria, il cagnolino da guardia di un boss della baraccopoli, proprietario di tutti i terreni e le costruzioni sorte come funghi grazie al boom economico indiano del fine secolo XX. Boom economico che, come altrove, ha finito spesso per lasciarsi dietro ancor più disperazione ed ancor più miseria. Oltre ad un divario sociale che fa dell'India contemporanea al tempo stesso una delle potenze emergenti ed una potenziale polveriera.


Latika è una bambina della baraccopoli, che cresce assieme ai due fratelli e finisce per innamorarsi, ricambiata, di Jamal. Fra di loro però si mette lo spietato fratello, che prima abusa di lei e poi - diventata ormai una splendida ragazza - la "protegge" (anche da Jamal), in quanto oggetto personale del suo capo.
Dopo anni di lontananza, le strade dei tre si rincontrano, grazie alla testardaggine ed all'amore di Jamal che cerca in tutti i modi di liberare Latika dalla casa in cui il boss ed i suoi scagnozzi - tra cui Salim - la tengono pressochè come una schiava.
Nel frattempo, i due piani temporali si sovrappongono e così troviamo Jamal seduto regolarmente sulla sedia per rispondere alla domanda finale e, grazie al sacrificio eroico del fratello "pentito", Latika pronta a rispondere al telefono per aiutarlo ad indovinare quella, milionaria, ultima risposta. Non ne sarà in grado. Ma Jamal, ormai vero eroe, più forte di tutto e di tutti, l'invincibile Jamal, azzeccherà - sparando a caso - anche questa. Per la gioia della folla delle baraccopoli in delirio e, soprattutto, l'amore eterno della sua bella.
Non si salva granchè di questa storia. E, complice la messa in scena ammiccante ed il montaggio furbo, è difficile resistere fino alla fine. La "morale" probabilmente vorrebbe essere: anche un pezzente, in un Paese lacerato, con la buona volontà, l'onestà, l'amore e una buona dose di "culo" (potremmo dire provvidenza, per chi crede: "era scritto" è la chiosa del film) può diventare un miliardario. Ce n'è di che essere accusati perlomeno di razzismo (emblematica la scena in cui i due turisti americani mostrano "un pezzo di vera america" al piccolo Jamal).

Nel corso del film vengono sfiorati tanti e così importanti temi da far rabbrividire, per via della faciloneria con cui sono liquidati. Così, per ragioni di ritmo (che è incalzante nella maggior parte del film), gli scontri religiosi sono liquidati con un "arrivano i musulmani" (che spaccano la faccia ed uccidono la madre di Jamal). La miseria ed il boom economico, l'effetto di programmi che promettono milioni e gloria, la violenza maschile sulle donne, etc...sono tanti altri temi buttati nel piatto solo per essere funzionali alla storia principale, che è quella dell'eroe senza macchia e senza paura che, alla fine, "ce la fa": un vero melodrammone per le lacrime di chi vuole.
Per non parlare delle incongruenze e delle scelte ingiustificate: il fratello di Jamal che, da spietato aguzzino diventa improvvisamente martire per la felicità della coppia; l'inverosimiglianza del quiz (pur nella sua ricostruzione scenica fedelissima) e soprattutto l'assurdità delle giustificazioni che stanno alla base delle risposte esatte. Certo, un film è sempre un'opera di fantasia, ma le scelte, anche se del tutto inverosimili, devono essere giustificate, si deve capire il perchè di un'inquadratura, di un dialogo, di una scelta di sceneggiatura, di un cambio psicologico così forte, etc...
Invece, nel pluripremiato The Millionaire, l'unica cosa che conta è il risultato finale, la vittoria dei buoni sui cattivi e tutto e tutti devono sacrificarsi a quello, a costo di perdere ogni ragion d'essere, ogni logicità. Ed abbandonarsi - ed abbandonare lo spettatore ormai stanco - alla più completa, piatta, spenta, mancanza di riflessione. Vinca Jamal, si amino gli innamorati, trionfi la bontà, in qualunque modo purchè finisca presto...

martedì 25 agosto 2009

Il cielo sopra Berlino - W. Wenders (1987)

Chissà, forse nemmeno lo stesso Wenders si aspettava che questo film diventasse così conosciuto (è probabilmente quello per cui è più universalmente noto), apprezzato (da taluni in verità odiato), recensito.
Si tratta - è lo stesso regista che ce lo dice - di un lavoro con una sceneggiatura scarna ed improvvisata (impreziosita ed ispirata dalle poesie di Rilke), in cui la decisione di creare il personaggio che sarà poi affidato a Peter Falk è intervenuta solo a riprese in corso, e che non nasconde soprattutto il fatto che manca - e si vede - un'idea di fondo. Il cielo sopra berlino sembra esattamente questo: un film che non sa dove vuole andare. Un peccato? No, tutt'altro.
Infatti, per quanto un pò scollegate tra di loro, le idee geniali non mancano. Sia di scrittura: il vecchio poeta che cerca Potsdamer Platz ricordandola bella e splendente prima della guerra (lì c'era il caffè, lì ci deve essere un tabaccaio,...), mentre ora è ridotta ad un ammasso di calcinacci; oppure il monologo interiore della trapezista disperata dopo aver saputo che il circo chiuderà; il dialogo iniziale fra i due angeli che si raccontano quello che hanno osservato ed annotato su un notes, con un'attenzione incredibile per le piccole cose, i particolari importanti della vita.
Sia di regia (premiata a Cannes): alcune scene, per come sono state girate - soprattutto quelle dentro alla biblioteca di Stato -, sono da antologia del cinema; superbe anche le inquadrature degli angeli - appollaiati, solitari, sulla Colonna della Vittoria - che riflettono ed osservano la vita umana che scorre sotto di loro. Interessante anche la fotografia, con la scelta di girare in seppia all'inizio, nel mondo degli angeli, e a colori nella seconda parte, nel mondo umano, ma con due eccezioni (in fondo sono mondi non così scollegati...)
Ma il vero punto di forza di questo film sta nella sua capacità di evocare: i fantasmi passati ma non ancora sopiti (la guerra con le sue atrocità, i bombardamenti, i morti, l'onnipresente muro che divideva in due la città e l'Europa intera), le difficoltà di una popolazione in via di arricchimento materiale, ma provata nella sua spiritualità, fatta di persone sole, che non comunicano mai (Il cielo sopra Berlino è un film fatto, con poche eccezioni, quasi interamente di monologhi e riflessioni, privo di dialoghi). Ma, allo stesso tempo, è un film che riesce, in mezzo a queste macerie, sotto a questo orripilante muro, con tutte queste solitudini, ad evocare anche la speranza. Una speranza incarnata dai bambini (che riescono a comunicare tra di loro e anche con gli angeli) e dall'amore. E se i bambini sono protagonisti anche grazie alla poesia scritta da P. Handke (co-sceneggiatore con Wenders) e ripetuta spesso durante il film, come a sottolineare la forza della volontà e dell'ingenuità di questi angeli in carne ed ossa, è proprio per amore della trapezista con le ali che avviene la svolta decisiva. Daniel (B. Ganz) infatti - che era comunque già stanco dell'immaterialità, stanco di esistere "da sempre" e non poter mai godere dell'ora - si decide a diventare umano. A scavalcare "il muro". Per poter amare.
Lo aiutano dapprima l'amico angelo Cassiel (O. Sander) - che invece resterà angelo e continuerà a cercare (senza sempre riuscirci) di influire positivamente sulle depressioni e debolezze umane - e, poi, un istrionico Peter Falk che, impersonando se stesso - a Berlino per girare un film su Hitler - ammette che anche lui, una volta, era un angelo ed ha scelto di fare il grande passo, per il piacere di mangiare un panino o "di sfregarsi le mani quando hai freddo".

Film delle bellissime immagini e dell'amore (ingenuo, angelico, da bambino, dunque autenticamente profondo) per le piccole cose.
Finale un pò tirato via, ma viste le premesse non poteva che essere così.

domenica 23 agosto 2009

La pelote de laine - F. Zohra Zamoun (2006)


Delizioso e terribilmente denso di significato questo cortometaggio di 14' presentato a diversi festival internazionali e premiato al Fespaco.
L'algerina Zohra Zamoun, emigrata in Francia, riesce a mettere in scena in pochi minuti e con pochissimi dialoghi un concentrato di potente ma dolcissima sovversione.
La trama: Fatiha vive assieme al marito e due figli in un condominio di una periferia francese. L'uomo, ogni mattina, andando al lavoro, chiude la porta di casa a chiave, impedendo alla moglile di uscire, con la scusa che si perderebbe perchè non conosce nessuno.
Pur rinchiusa apparentemente senza scampo, Fatiha riesce ad inventare un modo per comunicare con la vicina - francese, anche lei madre - e comincia così a ricrearsi una propria vita. Dagli scambi attraverso i balconi di biscotti, foto dei bambini, maglioni fatti a mano, si arriva alla complicità nella riproduzione delle chiavi del marito. Grazie all'aiuto della vicina, dunque, Fatiha riesce a ribellarsi e sottrarsi alla sua condanna. Inizierà così ad uscire di nascosto, mentre il marito è al lavoro. Porterà i bambini al parco giochi come tutti gli altri e parlerà con le altre madri. Nell'attesa di un cambiamento dell'uomo, che non arriverà mai. Così, un giorno, lui rincasando dal lavoro troverà la casa vuota.

Molto più che da interventi militari, dagli accordi fra Stati, dalla politica degli aiuti o degli embarghi, molto più che da leggi o divieti, contro ogni genere di fanatismi o repressioni (non per forza dettati dalla religione, ma anche - come in questo caso - dall'ignoranza, dalla prepotenza, dalla cattiveria e dal maschilismo imperante), ogni miglioramento della condizione umana dipenderà da coloro che sono vittime di soprusi e dalla possibilità che avranno di ribaltare (i ruoli e le norme), sovvertire (i governi e gli ordini più oppressivi), in definitiva: migliorare (le società di tutti).
Nostro compito - come ci mostra la madre francese di questo "La pelote de laine" - è sostenerli in questa decisa e dolce rivoluzione: degli usi e costumi più beceri, delle abitudini più oppressive ed apparentemente immodificabili, della realtà allucinante in cui viviamo.

Vagon fumador - V. Chen (2001)

In un'Argentina in piena crisi economica, tetra, vuota di speranze e futuro, sono molti i ragazzi che si prostituiscono per le strade di Buenos Aires. Andrès è uno di loro e lavora agli sportelli bancomat 24h.
Reni invece è una ragazza sola e triste, che sta per essere esclusa dal gruppo dove canta perchè gli altri componenti capiscono che nella sua voce c'è qualcosa che non va.
I due si incontrano "per caso" (Andrès ruba il bancomat a Reni, che glielo lascia perchè tanto non ha più un soldo nel conto) e cominciano a frequentarsi. Due solitudini che si incontrano, si "innamorano" l'una dell'altra, per un pò sembrano anche riuscire ad affrontare meglio, assieme, le notti di Buenos Aires (che sono lunghe per chi vive e lavora in strada), ma poi, inevitabilmente, finiranno per seguire ciascuna il proprio cammino ineluttabile.

Se la trama non è niente di eccezionale, i dialoghi appaiono a tratti forzati (e un pò banali), gli approfondimenti psicologici e le evoluzioni dei personaggi non esistono, il pregio di questo Vagon Fumador sta forse proprio nella regia della Chen.
Girato quasi interamente di notte, con la mdp a mano, inquadrature spesso accelerate o rallentate - che si alternano con riprese fisse delle telecamere a circuito chiuso dei bancomat - le luci delle macchine e dei negozi a creare uno sfondo disturbante, la regista riesce a rendere perfettamente l'idea della schizofrenia di una società come quella dell'Argentina, arrivata ad un collasso economico dopo decenni di sfrenata corsa ad inseguire un liberismo che ha condotto il Paese alla bancarotta e milioni di persone alla disperazione. Una società senza senso, incomprensibile, allucinante, soprattutto per i giovani, comprensibilmente privi di prospettive, di speranze e, infine (e ciò che è peggio), anche di voglia di cambiare le sorti della propria vita. Giovani pigri, forzati della pigrizia mentale, come Andrès.
Tutto ha un prezzo, spiega all'amica. Un panino costa 5 pesos, una birra 3 pesos. Io costo 150 pesos. E' questo il mio valore.
Insomma, senza un prezzo non sei nessuno. In questo mondo senza senso, per farti valere, per contare qualcosa devi farti pagare. E se non hai niente da vendere, non ti resta che il tuo corpo. E' solo questo che pare capire Andrès, è l'unica cosa che ha imparato dalla vita in strada.

Anche Reni prova a battere. Per curiosità, disperazione, noia, accetta di lavorare una sera assieme ad Andrès. Non le piacerà. E deciderà di partire, di andare, verso un non-si-sa-dove, ma lontano, molto lontano. In un film così triste e greve, è questo l'unico sussulto di vita, l'unico sprazzo di speranza.

In concorso a Venezia nel 2001

giovedì 20 agosto 2009

Il regista di matrimoni - M. Bellocchio (2006)

Franco Elica (S. Castellitto), famoso ed apprezzato regista, ma svenduto alle necessità ed ai gusti di produttori e pubblico di massa, sta girando l'ennesimo rifacimento de "I promessi sposi". Nel frattempo, la figlia si sposa con un fervente religioso, in un'orgia di canti di chiesa e schiocchi delle mani. Per lui, ateo e riservato, tutto questo è davvero troppo. Per quanto tutti lo chiamino "maestro", non riuscirà nemmeno a riprendere le scene della cerimonia religiosa con una piccola videocamera digitale.

Dopo aver appreso della morte di un collega (Smamma, interpretato da un grande G. Cavina) in un incidente in Sicilia, come d'incanto si ritrova fuggiasco su una spiaggetta siciliana dal paesaggio mozzafiato. Lì incontra un mediocre regista di matrimoni che, emozionato dall'incontro, domanda al "maestro" come girare una scena in spiaggia del filmino di una giovane coppia di sposi. Elica dapprima tituba poi, trascinato dalla sua arte, comincia a disegnare una scena del tutto fuori dagli schemi del "filmino del matrimonio", con fughe, nudo, erotismo, disperazione.
Da questo momento, da quest'idea, parte la storia.
Convinto da un principe in disgrazia a dirigere (non a filmare) il matrimonio d'interesse della bella figlia con un ricco ed insulso rampollo, il "maestro" entrerà tanto nella parte da voler costruire, scena dopo scena, un finale diverso da quello che tutti si aspettano. Con buona pace dei parenti che pretendevano - come protettori - un capolavoro dal loro artista a pagamento.

Film complesso, questo di Bellocchio, dai tanti risvolti. C'è l'aspetto psicologico e probabilmente autobiografico, affrontato nelle chiacchierate notturne di Elica con il finto-morto Smamma, sorta di Mattia Pascal moderno, unico modo per essere premiati, in questo mondo "dove comandano i morti" (ma per Bellocchio - e non si può che esser d'accordo, per quanto sia una banalità - anche i "paraculati", quelli che strizzano l'occhio alla critica). C'è poi l'aspetto quasi gattopardesco: in una Sicilia che sembra ancora ferma all'ottocento, una giovane, bella ed affascinante figlia di un principe caduto in miseria è costretta ad un matrimonio che non vuole per salvare l'onore della famiglia. Viene addirittura rinchiusa in un convento perchè il giorno delle nozze arrivi senza turbamenti. C'è poi l'amore, o forse meglio la voglia di evasione, di fuga, di autentiche passioni.
E poi, ed è probabilmente l'aspetto più complesso, c'è la riflessione sul cinema, sul ruolo del regista come creatore. Della finzione che a volte rischia di confondersi con la realtà e di soverchiarla. Soprattutto quando, come avviene in questo matrimonio (che non s'ha da fare..), tutto ciò che è reale appare così finto. E allora il ruolo del regista si fa invasivo e dalla semplice messa in scena passa all'intervento diretto sulla realtà dei fatti, in un continuo gioco a confondere i due piani, mischiarli, ingarbugliarli. Con un fine molto preciso, però: dimostrare che il cinema (come ogni arte del resto) può anche non essere disperata ricerca di un successo di critica o di pubblico, nè banale appiattimento descrittivo della realtà-così-com'è. Ma può essere, e anzi deve essere, amore. Amore per la vita, ma non un amore rinunciatario, tutt'altro: un amore diretto ad agire sulla realtà, a modificarla o quanto meno a cercare un cambiamento. Perchè il regista, come ogni artista, porta nella sua opera (di finzione, certo) la sua visione della realtà. E, così facendo, (se capace) la aggredisce, la rielabora, la mette in discussione. Per amore.

Il mondo a volte triste ed oppressivo a cui siamo abituati o la visione - a tratti folle, sovversiva - dell'artista dietro la macchina da presa ad immaginare finali diversi da quelli canonici. Dove sta la finzione?
E se Lucia avesse sposato l'Innominato?

mercoledì 12 agosto 2009

L'odio - M. Kassovitz (1995)

La descrizione di venti ore di tre amici che abitano in una banlieue di Parigi, il giorno dopo dei violenti scontri con la polizia che hanno portato alla morte di un giovane di origine maghrebina.

Miglior regia a Cannes '95, L'odio è effettivamente un concentrato di inquadrature azzeccate e fantasiose, tecnicamente all'avanguardia e dalla resa perfetta. Se a questo si aggiunge un bianco e nero d'effetto, dialoghi riusciti, interpretazioni eccezionali (V. Cassel, H. Koundé, S. Taghmaoui), piccole "chicche"di scrittura (la scena del cocainomane, la citazione di Taxi driver, la vacca in periferia,...) ed una colonna sonora superba, beh..ecco che ad uscirne non può essere che un grande film.

La tematica non era facile: si sa quanto film su emarginazione, ghetti di periferia, razzismo possano faclmente scadere nella banalità e faciloneria, farsi megafono di stereotipi fin troppo comuni. Ma non è questo il caso.
L'odio colpisce duro fin dalla prima scena e, al ritmo di rap (in senso letterale), trascina lo spettatore fin nell'inferno senza uscita di una vita ai margini.
Lo fa senza ricorrere a frasi fatte, senza ricorrere all'esposizione della violenza, se si eccettuano un fermo di polizia particolarmente ruvido ed un pestaggio di cui rimane vittima un naziskin (interpretato dallo stesso regista).
Per il resto, la violenza in senso stretto, la violenza mostrata non fa parte di questo film. Eppure L'odio è un film violentissimo, dove la violenza è dappertutto, non dà tregua, ti insegue e ti bracca, fino a lasciarti sgomento. Ma è nella creazione passo dopo passo del clima (e non nel suo spiattellamento) che sta la maestria dello scrittore di sceneggiature ed il manico del regista (in questo caso i due coincidono).

Una pistola, persa da un poliziotto durante gli scontri nella banlieue e ritrovata da uno dei protagonisti, che troviamo spesso puntata verso la mdp, così come talvolta gli sguardi dei protagonisti, altre "bocche da fuoco" pronte a sparare. Le urla, che accompagnano pressoché tutti i dialoghi, sempre lì lì per trasformarsi in scontri violenti, per qualunque stupido motivo. La droga, che vediamo appena per pochi istanti, ma dai quali capiamo che è l'unico modo per fare soldi per quei ragazzi. La mancanza totale di prospettive, la voglia di fuga e la disillusione di cui soffrono i protagonisti (il cartellone pubblicitario trasformato con lo spray). La distanza incolmabile fra il mondo dei ricchi intellettuali (probabilmente "di sinistra") ed il loro, troppo autenticamente problematico per poter essere accettato, o anche solo compreso e non etichettato come "disagio delle periferie", qualcosa da raccontare il giorno dopo agli amici. Senza capire che questo è il disagio delle nostre società, tutte intere, non delle periferie. E' probabilmente il disagio necessario affinchè vi sia l'agio di tutti gli altri. Che va difeso. Ed ecco allora la risposta dell0 Stato, quello Stato che è onnipresente nella banlieue, ma solo in divisa, che mostra i muscoli, che aggiunge violenza a violenza, in una spirale che non si sa fin dove porterà. Uno Stato che, per mezzo dei suoi funzionari addetti alla "sicurezza", arriva ad uccidere, o a torturare per il piacere di farlo. La scena del fermo violento in cui il poliziotto insegna alla giovane recluta come femarsi appena prima di lasciarsi troppo prendere la mano ("non perchè non si vorrebbe andare oltre eh...") vale più di un manuale o di un'inchiesta.

Film che sconvolge e turba perchè non ha mai un attimo di tregua, di autocompiacimento, di consolazione. Anche nei momenti più "tranquilli", un dialogo, una mossa della macchina da presa, un effetto, un rumore arrivano subito a riprenderti per i capelli e a riportarti giù, in strada. Da dove non si scappa. Da dove non si esce, vivi.

mercoledì 5 agosto 2009

Paradise now - H. Abu-Hassad (2005

Cosa non si sa ormai della "guerra israelo-palestinese"? Quanti servizi di telegiornali, articoli, approfondimenti, inchieste, etc...? La tragedia ci viene costantemente presentata e ripresentata, sviscerata sotto ogni aspetto; l'intera vicenda, con tutto il suo carico di problematicità, è stata indagata, studiata in migliaia di libri nel corso della sua ormai più che sessantennale storia, a partire dalla proclamazione dello Stato di Israele nel 1948.
Eppure, c'è ancora qualcosa che nessuno è mai riuscito a spiegare davvero: cosa scatta nella testa di un kamikaze? Cosa può spingere a farsi esplodere addosso chili di tritolo per uccidere, sventrare, maciullare innocenti passanti, donne e bambini?
E' quello che prova a fare Abu-Hassad con questo Paradise now, storia di due aspiranti kamikaze che, dopo esser stati prescelti per un'azione terroristica a Tel Aviv, si avvicinano al momento fatale, in cui emergeranno le loro differenze e le loro contraddizioni.

Said e Khaled sono due giovani amici che vivono a Nablus, Cisgiordania. Lavorano come meccanici in un'officina, sono due bei ragazzi, con una famiglia alle spalle; Said ha anche una ragazza di nome Suha che cerca di conquistarlo e trova ogni scusa per passare a farsi sistemare la macchina scassata. E quindi?
Un primo punto a favore del film è sicuramente questo: riesce a mettere in scena la penosità di una vita "in gabbia" con semplici accenni, delicati pur nella loro drammaticità. Senza bisogno di mostrarci tragedie e miserie (che pure non mancano), senza bisogno di mostrare tutto nero, Abu-Hassad dipinge il quadro di una completa mancanza di libertà con pennellate leggere: i posti di blocco israeliani che impediscono i movimenti, l'impossibilità (descritta a contrario) di ottenere un permesso di lavoro a Gerusalemme, il reticolato che divide la Cisgiordania dal resto di Israele diventano allora l'emblema della claustrofobia, della totale assenza di libertà, quindi di futuro e di speranze per chi ha la sfortuna di nascere sotto un'occupazione.
Questo sono Said e Khaled: giovani normali ma che non vedono niente davanti se non miseria e frustrazione e finiscono per credere alle allucinazioni proposte loro dagli "ideologi del martirio".
E' da questa frustrazione e dall'odio cieco verso, indistintamente, tutti gli israeliani, instillato nelle loro menti dalla propaganda e, certo, dalle condizioni di vita drammatiche di larga parte della popolazione che nasce la loro decisione.
La religione, presente nei discorsi e nelle formule di rito, è però lasciata in secondo piano dal film, che sceglie invece - perlomeno nei momenti decisivi (il testamento, la confessione finale di Said, il dialogo in macchina fra Suha e Khaled) - un approccio più sociologico, a dispetto dello stesso titolo. Come a dire che non c'entrano le 72 vergini o qualche altra motivazione ultraterrena, ma che il fanatismo (e la visione estremistica della religione) è la conseguenza di scelte politiche e delle conseguenti condizioni di vita. E che è sul miglioramento di quelle (attraverso scelte politiche) che bisogna puntare per cercare delle soluzioni. Per non indurre tanti giovani a credere che solo nella violenza della lotta vi sia una via di fuga, che - come dice Khaled - palestinesi ed israeliani possono essere uguali solo nella morte e quindi è giusto il martirio e l'uccisione di innocenti.
A questo, a questa visione di morte si prova ad opporre Suha, figlia di un martire, che lavora per un'associazione di promozione dei diritti umani e che riteniamo essere la "portavoce" del regista. E' dando voce a chi - soprattutto fra i giovani - ha voglia di dialogare che si arriverà a qualche soluzione. Ma la strada è ancora lunga e, visto da Nablus, l'obiettivo di una pace e di una convivenza pare davvero irraggiungibile. Eppure, si potrebbe dire, anche in quelle condizioni qualcosa si muove nella giusta direzione.


Il percorso di avvicinamento all'ora x per i "nostri" kamikaze sarà comunque più complicato del previsto e i due amici, altro punto di merito per il film (che individualizza questi "aspiranti martiri" e non li generalizza, come invece siamo abituati a sentire fare), prenderanno strade diverse. Troppo incerto Khaled - forse per attaccamento alla propria vita, forse anche perchè il discorso di Suha l'ha toccato nel profondo - troppo sicuro Said, per il quale questo martirio rappresenta anche l'occasione di liberare sè e la sua famiglia dall'onta di un padre collaborazionista. E di vendicarsi per un'infanzia rubata, passata rinchiuso nella miseria di un campo profughi. Dove, per forza di cose, i germi del fanatismo continueranno a diffondersi, contagiando tanti di questi giovani "normali" ai quali viene quotidianamente sottratta ogni speranza, i quali muoiono lentamente ogni giorno e, dunque, in certi casi, scelgono la folle strada della morte immediata. Nella speranza vana che, dopo, ci sia qualcosa di meglio.

Se i pregi di Paradise now sono dunque l'approccio, l'originalità, la regia e la fotografia, il difetto principale di questo film - che ha ottenuto diversi premi ed è stato candidato agli Oscar come migior film straniero - sono forse i dialoghi, o meglio alcuni monologhi, anche importanti, che appiaono un pò forzati, che informano lo spettatore in pochi secondi. Forse gli stessi indizi potevano essere disseminati meglio qua e là.


K: "E allora saremo uguali a loro nella morte. Solo a noi spetta il paradiso"
S: "Il paradiso non esiste, sta soltanto nella tua testa, Khaled"
K: "Sempre meglio avere il paradiso nella testa che continuare a vivere in questo inferno. Si sceglie di morire solo per sfuggire al peggio"
S: "Che cosa succederà a noi? A noi che restiamo..."