venerdì 19 settembre 2008

Les indigènes - R. Bouchareb (2006)

Si sono sentiti e letti commenti molto divergenti su questo lavoro del regista francese di origine algerina Rachid Bouchareb, i cui 4 protagonisti hanno vinto assieme il premio per il miglior attore al Festival di Cannes 2006 (più modestamente, il film si è aggiudicato lo Human Rights Nights Festival di Bologna di quest'anno). In particolare, l'accusa da alcuni rivolta a Bouchareb è quella di aver omaggiato i soldati africani (pieds noirs) che, dalle colonie francesi, si sono arruolati fra le truppe alleate contro gli invasori tedeschi, senza metterne in risalto le bestialità, che ritroviamo invece in opere come La Ciociara. Il più grande pregio del film, al contrario, secondo altri, è proprio quello di aver squarciato un velo su una pagina di storia dimenticata e di aver reso giustizia a uomini coraggiosi, disinteressati, quanto maltrattati dallo Stato francese che ha sempre disconosciuto i loro meriti e per anni ha bloccato le loro pensioni (e tuttora latita).
La visione che qui si propone è leggermente diversa, in quanto ciò che interessa sottolineare, all'interno di quello che potrebbe essere considerato solo l'ennesimo film di guerra – con tutto il patetico e celebrativo che si accompagna generalmente a questi film -, non è tanto se i soldati maghrebini fossero "buoni" o "cattivi", quanto i meccanismi ingiusti e prevaricatori che stanno alla base di tutte le gerarchie militari e di tutte le guerre, anche quelle giuste, come la liberazione dell'Europa dal nazifascismo può certamente essere definita.
Il film si apre nell'Algeria colonia francese, in cui vengono chiamati alle armi giovani che per scappare alla miseria o trovare una propria possibilità di affermazione accettano di partire volontari dopo un sommario addestramento. Fra inni ridicoli e primi pentimenti, il gruppo è pronto per salpare in direzione dell'Italia, quindi - tra '44 e primi del '45 - della Provenza e dell'Alsazia. A distinguersi sono particolarmente Said, per la sua ingenua bonarietà ed il suo servilismo – che lo porteranno ad essere il "preferito" del sergente Martinez, guadagnandosi così gli sberleffi machisti dei commilitoni che lo chiamano Aicha – e Abdelkaber, per il coraggio, la cultura, la consapevolezza dei propri diritti e le capacità comunicative. Ma in un esercito, a maggior ragione se in guerra, non c'è spazio per la cultura e la giustizia sociale: tutte le richieste di Abdelkaber – che ai soldati sia insegnato a leggere, che a lui, maghrebino, sia permesso di procedere in carriera come ad un francese, che anche agli africani sia concesso di andare in licenza come ai francesi – sono sistematicamente frustrate da un ambiente che annulla le personalità rilevanti, ambiziose, o semplicemente non-disumane (come lo stesso sergente Martinez, anch'egli vittima del meccanismo), perchè ha bisogno di marionette, di carne da macello, di miniature da guardare con il binocolo mentre, decimate passo dopo passo, avanzano verso l'obiettivo.
La storia, per quanto inevitabilmente di parte, è assolutamente vera e comune a tutte le guerre, da che mondo è mondo, almeno fino a che le guerre si combattevano corpo a corpo: i soldati vengono mandati allo sbaraglio ed i compiti più rischiosi sono affidati ai più disperati, ai meno preparati, ai disorganizzati.
Il film, nonostante l'enorme costo, scorre liscio, senza infamia e senza lode. Fino all'ultima scena: un déjà vu che Bouchareb si poteva anche risparmiare rendendo la stessa emozione in altro modo.
Il cinema – quello dei grandi – ci insegna che per raccontare storie diverse, da altri punti di vista, è possibile (anzi, consigliato) allontanarsi dai soliti cliché, dalla solita retorica, dai soliti stacchi fra le inquadrature. Un film "alla Spielberg", lo gira meglio Spielberg. Ottimo risultato di pubblico.

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