giovedì 17 gennaio 2008

Le mani sulla città - F. Rosi (1963)

Avere 45 anni e non sentirli. Rosi – regista "d'inchiesta" per eccellenza – mette in scena un dramma cupo e senza spiragli, ambientato in una Napoli popolare e miserrima. La città è preda delle mire di Eduardo Nottola, un palazzinaro arrogante che fa e disfa edifici (con tragiche conseguenze), decidendo a proprio piacimento, grazie ai suoi agganci politici, il piano regolatore, fino ad ottenere addirittura - non senza aver prima "cambiato casacca", come si confà ad ogni politicante vincente – l'incarico di assessore all'edilizia.
La trama è piuttosto semplice e lo sviluppo del film prevedibile e scontato, nel suo procedere in modo inesorabilmente unidirezionale. Ciò nonostante, "Le mani sulla città" sconvolge. Non solo perchè Rosi ci mostra, senza sconto alcuno, gli inciuci fra potere ed affari privati, la spietatezza di un interesse economico posto al di sopra della legge, o forse meglio ancora per una legge fatta e plasmata ad hoc, per rendere legale – e anzi meritorio! - lo sfruttamento di terreni e soldi della collettività a tutto vantaggio di pochi. A scuotere lo spettatore è piuttosto l'attualità della pellicola.

Forse che l'abbattimento tragico di un edificio, fatto in tutta fretta ed in barba ad ogni elementare norma di sicurezza ("perchè i soldi non sono come una macchina che puoi lasciare in garage. I soldi si devono sempre muovere") e presentato come "disgrazia", non ricorda le quotidiane morti (presentate come "tragici incidenti", "fatalità") di lavoratori spremuti come agrumi per ottenere nel minor tempo possibile profitti massimizzati?
Forse che la corsa al "miglioramento" della città ("Non vorrete, voi comunisti, che questi poveracci vivano per sempre dentro a quelle catapecchie?") non ricorda la sfrenata e folle corsa allo "sviluppo", "all'ammodernamento" alla "crescita" che ancora oggi tappa la bocca ad ogni protesta o tentativo di cambio di rotta, tacciandoli di arretratezza o, peggio, di populismo?
La facilità con cui nel film, sempre in nome del "progresso", un intero quartiere viene coattivamente sgomberato per far posto al nuovo, alla fonte di ricchezza (per tutti, ovviamente), non ricorda forse le espropriazioni di terre che in gran parte del mondo cosiddetto democratico avvengono sulla testa di milioni di persone, con la scusa "dell'interesse generale" e del "miglioramento delle condizioni di vita"?
A uscire malconcia da questa pellicola, a maggior ragione dopo quasi mezzo secolo, sembra proprio essere la "democrazia". La facilità con cui le marionette-votanti sono plasmate, (dis)orientate, comprate con favori o denari, costrette a rivolgersi alla furba carità del miliardario di turno (in certi casi tragici addirittura convincendosi della sua generosità...), finisce per svuotare completamente di significato questa parola.
L'impunità dei potenti, l'intangibilità degli interessi economici e la sacralità dei privilegi vanno a braccetto con l'ipocrisia di una forma di governo che dovrebbe essere "del popolo".
Il film si chiude con questa didascalia: "I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce." Purtroppo, a distanza di 45 anni, essa non sembra ancora voler cambiare.

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