giovedì 31 luglio 2008

Rassegna Kubrick (21 luglio - 1 agosto 2008)


Dal 21 luglio al 1 agosto 2008 il Comune di Bologna ha proposto sul maxischermo di Piazza Maggiore una rassegna integrale dedicata al regista statunitense scomparso nel 1999. Tutte le proiezioni erano gratuite.




Per questo, dunque, voto 10 al Comune di Bologna.



Di seguito, alcuni accenni limitati ai primi tre lavori di Kubrick.











Killer's kiss (1955)



Il bacio dell'assassino




Kubrick ha appena 27 anni quando realizza - nel senso di: scrive, fotografa, dirige (in pochi giorni), monta (in dieci mesi!) – questo suo piccolo (appena 67 minuti), ma ben riuscito lavoro.







A colpire - a più di cinquant'anni di distanza - non è tanto la trama, basata su un intreccio tutto sommato banale, equivoci, contrapposizione buoni-cattivi, lieto fine, quanto la forma, decisamente più all'avanguardia del contenuto.

Alcune scene, per come sono girate, "parlano" molto più dei dialoghi: il primo incontro fra il pugile (Davy) e la ragazza (Gloria), il breve tratto di strada percorso assieme e poi la separazione. Gloria incorniciata nello specchio mentre Davy parla al telefono dopo la sconfitta che ha forse chiuso la sua carriera. La corsa di Davy sul tetto alla vana ricerca di un rifugio e la successiva lotta fra i manichini, con esito drammatico. L'arrivo di Gloria alla stazione, a riempire quello spazio vuoto che aveva accompagnato il triste pugile durante tutto il flash-back.

Voto: 6.5/10








The Killing (1956)



Rapina a mano armata


Appena dell'anno successivo, The Killing ("Rapina a mano armata") appare già di un livello decisamente superiore. Una banda di normali "onesti" cittadini – ognuno con un diverso motivo per rubare – compie un audace e complicato furto all'ippodromo, impadronendosi di due milioni di dollari. Purtroppo, un componente della banda (il cassiere dell'ippodromo) si rivela fin da subito inadeguato e, a causa della sua inettitudine e della sua incapacità di tenere a freno la lingua con l'avida moglie, il colpo – comunque riuscito – si trasforma in una tragica mattanza al momento della spartizione del bottino.

Kubrick sceglie qui di raccontare la storia dal rispettivo punto di vista di ogni appartenente alla banda. Lo fa con lunghi piani sequenza ed un montaggio a ritmo molto meno serrato rispetto al precedente Killer's kiss. A volte, proprio per la scelta di raccontare l'avvicinarsi del colpo da tutti i punti di vista, rischia anche di essere un po' didascalico. Tuttavia, la trama è appassionante, i dialoghi assolutamente brillanti (meravigliose le stoccate di Sherry, l'avida moglie del cassiere, indirizzate al marito) e la critica a certi vizi delle società "ricche" comincia a farsi sentire.

Con The killing, Kubrick, a soli 28 anni, è uno dei registi americani più affermati.

Voto: 7.5/10







Paths of Glory (1957)
Orizzonti di gloria


Con "Paths of Glory", Kubrick (30 anni prima di Full Metal Jacket) si immerge nel melmoso mare del militarismo, ci mostra splendidamente la sua assurdità, ed ottusità e se ne ritrae salvando perlomeno gli uomini. I fatti sono realmente accaduti: durante la prima guerra mondiale, dopo due anni di estenuanti battaglie di trincea, dal comando francese arriva l'ordine di prendere il decisivo "formicaio", postazione strategica e saldamente in mano ai tedeschi. L'attacco fallisce miseramente ed i capi, per "alzare il morale delle truppe" (sic!), oltre che per riaffermare la propria autorità e dare una punizione esemplare, decidono di fucilare 3 soldati, scelti a caso fra i sopravvissuti all'attacco.
È molto più che un film di guerra: è un film sulla società (e sulla sua stratificazione sociale), che prende a pretesto e a modello (negativo) il mondo militare, perfetto allo scopo con la sua ripetizione stupida di formule, la negazione dell'intelligenza, la necessità di una cieca obbedienza ai superiori, l'osservanza di regole che negano l'individualità,...in poche parole: un sistema che crea un insieme di regole e comandi per conservarsi vivo ed immutabile nella sua gerarchia, facendo leva sulla paura e sull'oppressione per garantirsi il necessario rispetto. Ammantandosi al tempo stesso di un contorno di parole come giustizia, onore, sacralità, famiglia. Meravigliosa la sequenza del generale che passa in rassegna le truppe – accompagnato da una pomposa marcetta che ne sottolinea, ridicolizzandolo, l'andamento fiero ma pronto a chinare paurosamente il capo ad ogni scoppio di bomba – e si ferma davanti ad alcuni soldati (sfiancati, demoralizzati, distrutti), ripetendo banalità del tipo "Pronto ad ammazzare altri tedeschi? Tua moglie sarà orgogliosa di te".
Bello il contrasto fra i movimenti rigidi, le divise eleganti, le frasi formali, i pranzi e le feste mondane di chi sta al vertice della piramide e le immagini di chi sta "in basso", in trincea, che striscia, inciampa, si ubriaca, in definitiva muore in vari modi.

Voto: 9/10

lunedì 28 luglio 2008

Samba Traoré - I. Ouédraogo (1992)

Samba Traoré è un giovane abitante di un villaggio africano che, trasferitosi in città per lavorare, commette una rapina in una stazione di servizio con conseguenze drammatiche, riuscendo tuttavia a mettersi in salvo con una valigetta piena di soldi. Tornato al proprio villaggio, è accolto con grandi feste da amici e genitori.
Pur cercando in ogni modo di dimenticare l'origine della sua fortuna (tanto da andare su tutte le furie quando qualcuno osa domandarglielo), Samba certo non si trattiene dallo spendere cifre folli, per acquistare bestiame per il villaggio e far costruire un bar da gestire assieme all'amico d'infanzia Salif.
Fra i sospetti – e talora l'invidia – dei compaesani, che non si capacitano di quanto sia riuscito a guadagnare lavorando in città, Samba si innamora di Saratou, la bella del villaggio, e la sposa. Quella che potrebbe essere una felice storia familiare si disintegra quando Saratou resta incinta: Samba (ancora ricercato) si rifiuta di accompagnarla in città per partorire, e suo padre, scoperta l'origine sporca della sua ricchezza, dà fuoco alla casa del figlio. L'arrivo della polizia al villaggio e l'arresto di Samba chiudono il film e con esso il cerchio che dall'errore - grave - porta necessariamente, dopo una rapida ascesa ed un'ancor più ripida discesa, alla giusta punizione (almeno nei film....).
E' tutto incentrato sul personaggio principale, questo lungometraggio del burkinabé Ouédraogo, premiato a Cannes nel 1990 per Tilai ed autore di spicco nell'odierna cinematografia africana.
Nonostante il reato e le menzogne, Samba è un personaggio positivo, solare. Il suo furto, per quanto spregevole, non è finalizzato ad un egoistico arricchimento.
Al contrario, Samba spende con generosità per migliorare la condizione di vita del suo villaggio e della sua famiglia, oppure per assecondare un sogno da ragazzini, cullato assieme all'amico più caro. Proprio per questo, Samba Traoré ci ricorda l'estrema difficoltà di migliorare la propria condizione di vita per chi è privo di mezzi ed il costante scontro fra tentazioni di benessere e regole della pacifica convivenza. La vendetta e la punizione non tardano ad arrivare, neanche quando l'autore dello sbaglio (pur non essendo un Robin Hood!) ha buone intenzioni.
I protagonisti di questo racconto sembrano accettarlo: Samba deve pagare, ma il finale – sopratutto se paragonato alle scene del primo sgretolarsi della felicità – è decisamente lieve e sereno: Saratou promette che aspetterà la fine della pena, i suoi amici saranno pronti a riabbracciarlo.
Film dalla trama semplice e lineare, regia più complicata, piena di piani-sequenza, con buie scene notturne o luminosissime inquadrature quasi accecate dal sole africano. È come se Ouédraogo volesse dirci che anche le regole più semplici (chi sbaglia paga) possono esserlo molto meno, se osservate attraverso altri canoni. Conseguentemente, la morale è decisamente meno chiara rispetto ad altri film africani. Film maturo.

mercoledì 23 luglio 2008

Faraw! Une mère des sables - A. Ascofaré (1997)

Raro esempio arrivato in Italia di film maliano, questo di Ascofaré è tuttavia soprattutto un film sul deserto e sulla sua immensità, sui suoi abitanti e le loro quotidiane fatiche, sui cosiddetti "aiuti" occidentali e le loro ripercussioni talvolta traumatiche.
Zamiatou è madre di una bella giovane e di due piccoli maschi pestiferi. Da sola, deve accudire il marito (infermo fisicamente e mentalmente dopo essere stato rinchiuso in prigione), allevare i figli (badando che non si ammazzino, nel frattempo), preservare l'integrità della figlia. Tutto questo senza un soldo, dal momento che la pensione per suo marito, più volte promessa, non è mai stata versata.
Gli unici momenti in cui le autorità maliane mostrano di esistere sono infatti quelli dell'imprigionamento del marito di Zamiatou e dell'attesa vana di ricevere perlomeno un minimo indennizzo sotto forma di pensione. Come se non bastasse, il mercante del villaggio si rifiuta di fare credito a Zamiatou (che pure lo implora e lo prega), poiché – dice l'uomo – "i soldi sono ormai la mia unica religione".
Una soluzione ci sarebbe: concedere alla figlia il permesso di lavorare presso "gli stranieri", i cooperanti francesi. Ma Zamiatou sa bene cosa significherebbe per sua figlia: diventare un gioco, un passatempo, un oggetto esotico da esporre in salotto o una moderna schiava: dal pavimento fino al letto il passo è breve.
Il film, che scorre tranquillo e lento, tocca il momento di più alta drammaticità proprio allorché le due donne – con la ragazza inevitabilmente attratta dalla prospettiva di un lavoro, di un guadagno e forse anche di un altro mondo (V: "La noire de..." di O. Sembène) litigano e si azzuffano davanti alla villetta di un cooperante che aveva sbattuto loro in faccia una quantità di banconote probabilmente mai viste prima.
Respinto l'assalto, la famiglia è comunque senza speranza: Zamiatou però non si dà per vinta e, con sforzi immani, riesce a trovare un'altra fonte di reddito e, in questo modo, a responsabilizzare la figlia e farla crescere. Finale moralistico e dalle pretese educative.
Bella la fotografia, che esalta la maestosità del deserto del Sahara, vero ed incontrastato signore dell'Africa saheliana, dove elementi come un asino o un otre d'acqua possono rappresentare davvero il discrimine fra la vita e la morte (o una vita buttata).

domenica 20 luglio 2008

Un condamné à mort s'est échappé - R. Bresson (1956)

Tratto da un racconto autobiografico, Un condannato a morte è fuggito (o "Il vento soffia dove vuole", secondo il titolo alternativo) è un film che riesce a creare pathos pur senza mettere mai in dubbio il finale (del resto, il protagonista è la voce narrante) e partecipazione ed immedesimazione dello spettatore pur senza mai mostrare i momenti più duri e violenti, anzi nascondendoli volutamente con fuori vista, fuori campo e dissolvenze.
Bresson lavora molto con il sonoro. La macchina è sempre assieme al protagonista e la maggior parte del racconto si svolge nello spazio ristretto della cella oppure davanti ai lavandini del carcere: è il fuori campo a "parlare". Si avverte l'avvicinarsi delle guardie con un rumore di chiavi sbattute contro la ringhiera delle scale, oppure di passi che si avvicinano dietro la porta. L'azione finale si decide ascoltando i passi del soldato che fa la guardia, oppure il cigolio della bicicletta della ronda, sfruttando lo sferragliare del treno per coprire la fuga. La lenta manomissione della porta è messa in pericolo dal silenzio nelle celle, coperto affannosamente da qualche colpo di tosse. Le comunicazioni e la solidarietà fra prigionieri - anche se qualcuno pare essersi rassegnato al proprio destino - nascono da colpi di nocche sul muro della cella oppure da bisbiglii negli spazi comuni del bagno.


Fontaine è un prigioniero politico, incarcerato dai nazisti occupanti la Francia. Non è un eroe, semplicemente è un uomo che non si arrende, che ha ancora voglia di lottare, che ama mettersi alla prova, ingegnarsi, come se quello della fuga – peraltro maldestramente tentata anche all'inizio del racconto – fosse un gioco, una sfida di intelligenza e scaltrezza e non l'unico modo per sottrarsi ad un'inevitabile fucilazione.
Tanto che, una volta architettato l'ingegnoso piano, Fontaine non si decide mai a metterlo in pratica, come se gli mancasse davvero il coraggio di portare a termine la sua opera. Non siamo dunque in presenza nemmeno di uno spavaldo prigioniero che fa leva sulla sua forza fisica per fuggire. Fontaine, anzi, pare tanto geniale e meticoloso nella preparazione, quanto piuttosto impacciato nella messa in atto. La fuga ha successo solo perchè Jost, giovane compagno di cella dell'ultim'ora (e del quale all'inizio Fontaine non sa se fidarsi o meno, ma al quale è quasi costretto a raccontare tutto), decide di unirsi al progetto, rivelandosi fondamentale.



Regia semplice, rigorosa, che dedica grandissima attenzione ai particolari: il mozzicone di matita, il cucchiaio, i ganci della lanterna, i bigliettini scambiati nel bagno, il fil di ferro: tutti oggetti fondamentali alla fuga ed ai quali viene attribuita la giusta importanza.
Bresson costruisce così, con un sonoro efficacissimo ed inquadrature tanto semplici quanto azzeccate, un piccolo capolavoro del genere. Premio per la miglior regia al Festival di Cannes del 1957.


Vicino di cella: "Credi nei tuoi ganci e nelle tue funi, ma in te dubiti"
Fontaine: "Il difficile è decidersi"

giovedì 17 luglio 2008

Gomorra - M. Garrone (2008)

Best-seller mondiale, incredibile successo di pubblico e critica unanimi, il libro Gomorra – che è costato la libertà personale all'autore Saviano (1979), costretto a vivere sotto scorta – è stato tradotto per il cinema da Garrone con bravura estetica e registica, ma un pizzico di eccessiva "furbizia".
Il film scorre, persino troppo. Due ore e trenta che volano fra omicidi, spaccio all'aria aperta, musica napoletana, ragazzetti affascinati dai boss ed enormi difficoltà nel condurre una quotidiana vita che non sia scandita dai ritmi e dagli obblighi imposti dal "Sistema". Un sistema molto diverso da quello che siamo stati abituati a conoscere dalle inchieste sulle mafie: uomini d'onore, vita appartata, casa e chiesa, nascondigli e fughe improvvise.
I nuovi affiliati, i giovani, potrebbero essere ragazzi "normali": sono attenti alle mode, esaltati dalla "estetica" del criminale (quella dei film holliwoodiani, tanto per capirsi: armi in abbondanza, belle macchine, donne, palestra e centro estetico). Fanno una vita in tutto e per tutto "normale", in cui il datore di lavoro (che paga bene) è il Sistema, chi eroga pensioni e contributi a chi è in difficoltà è il Sistema. Le "agenzie di collocamento" sono il Sistema, i luoghi dove i ragazzini si formano le coscienze sono quelli del Sistema. Che è dappertutto, che fa affari con tutti: con lo Stato e con le altre bande. Che guadagna miliardi sulla pelle dei più a rischio: disoccupati cronici, tossicodipendenti, giovanissimi, immigrati irregolari. Infischiandosene ovviamente di tutto, a partire dalla salute dei propri concittadini, nei cui terreni sversa materiali tossici in abbondanza. Solo le guerre intestine possono turbare l'apparente serenità della vita regolata dal Sistema, che d'altronde le richiede (magari senza attirare troppa attenzione) per legittimarsi come strumento di oppressione del forte sul debole, costretto (più o meno con la forza) a farne parte, volente o nolente.
Garrone è bravo con la macchina da presa – per quanto ogni tanto un po' di mal di mare lo provochi – e ancor di più a contrastare proprio quella "mitizzazione" del malavitoso tipica di altri film sul tema. Tuttavia, a trovargli un difetto, questo film pecca un po' di autoreferenzialità, chiudendosi a riccio nelle storie che, fra tutte quelle del libro, sceglie di raccontare.
Saviano descrive la camorra come elemento strutturale di una società completamente votata al capitalismo più sfrenato e sregolato, ma al tempo stesso incapace, nonostante tutti questi soldi in circolo, di garantire prospettive oneste e dignitose ai propri giovani. Saviano parlava di merci, laboratori tessili, rifiuti tossici, appalti, anche in un'ottica "politica", cosa che invece Garrone sceglie di non fare (e che del resto anche con riferimento al libro probabilmente non è stata del tutto compresa).
La lotta al Sistema comporta anche una lotta ad un modello di sviluppo sbagliato, tutto incentrato sulle merci e sul denaro, che vede nelle persone (peraltro attirate da facili ed altrimenti impossibili guadagni, oltre che dalla smania del potere e dalla voglia di primeggiare) delle interscambiabili pedine prive della capacità e possibilità di criticare, contestare, ribellarsi.
Una macchina potente, un vestito griffato (anche se fabbricato in condizioni disumane), un rifiuto in più prodotto (e non si sa come "eliminato") e tutto passa, al Sistema chi ci pensa? Siamo tutti coinvolti.

mercoledì 16 luglio 2008

Vivre sa vie (Questa è la mia vita) - J. L. Godard - 1962


Nanà è una giovane aspirante attrice che, non riuscendo ad affermarsi, campa lavorando in un negozio di musica e poi, quasi per caso, diventa una prostituta. Il suo "protettore" decide di venderla e, nella sparatoria che ne consegue con l'altra banda, Nanà viene uccisa.
Premio speciale della Giuria e premio della critica al Festival di Venezia, "Vivre sa vie" (Questa è la mia vita") è, come si capisce meglio dal titolo originale, il racconto "in 12 quadri" di una vita vissuta. Di una vita che non chiede compassione, ma nemmeno ovviamente giudizi e biasimo. Una vita che è la "propria" vita, dove quel "propria" può riferirsi a ciascuno di noi.
Nanà cerca di emergere come attrice, ma non è del tutto convinta dei metodi che le vengono proposti, come il posare svestita. Si dà da fare per sopravvivere e, con un'indifferenza apparentemente assoluta, comincia a battere. Non odia i suoi clienti, ma nemmeno prova piacere nell'andarci a letto o nel ricevere i soldi. Semplicemente, lo fa. Quello che più emerge del carattere della protagonista non è però la sua ignavia. La sua non è indifferenza. Nanà – che si commuove al cinema guardando "La passione di Giovanna d'Arco" - è anzi assolutamente convinta della responsabilità personale di ciascuno di noi in qualunque cosa facciamo ("Fumo una sigaretta? Sono responsabile") ed è conscia di come la fuga non sia altro che una mera illusione. Elogio al libero arbitrio forse non pienamente condivisibile, ma certo di indubbia efficacia.
Nanà è un'anima libera, che parla, balla e beve con tutti. Ma ha una grande difficoltà, che forse è quella che la porta ad essere così apparentemente passiva nei confronti di quello che le succede attorno: non riesce in realtà a dire le cose che pensa.
È questo – quello della incapacità del lessico di trasmettere fedelmente i pensieri – l'oggetto di una discussione che Nanà ha dentro un caffé con un anziano scrittore-filosofo, che le contesta l'assunto secondo il quale, in presenza di questa incapacità, sarebbe meglio vivere senza parlare. Le porta l'esempio di Platone, ancora perfettamente comprensibile a 2500 anni di distanza e benchè nessuno oggi parli più la sua lingua. Bisogna, dice l'uomo, diventare capaci di farsi comprendere perchè per comunicare e per pensare bisogna parlare. Tuttavia, per acquisire questa capacità non scontata, occorre "rinunciare un po' alla vita". Questo è il prezzo: parlare è un po' una "resurrezione". Occorre distaccarsi ed uccidere la vita quotidiana, piccina, per elevarsi alla vita dotata di pensiero e di profondità. Che presupppone necessariamente di passare dall'errore per arrivare alla verità: non c'è verità senza l'errore.

Dedicato ai "B-movies", Vivre sa vie pare proprio essere un tentativo (in questo, riuscitissimo) di Godard di mettere in scena alcuni modi "alternativi" per comunicare, in un mondo, come quello cinematografico (ma certo, potremmo elencarne anche molti altri), incatenato all'unico (mezzo di espressione del) pensiero dominante: quello del cinema americano classico. Con lunghissimi piani sequenza, campi e controcampi a panoramica, inquadrature dove chi parla è "impallato" dal suo interlocutore, etc. il regista (e scrittore, montatore) francese vuole dimostrare le infinite opzioni del linguaggio (anche) cinematografico.
I temi scottanti che il film tocca (la prostituzione, la libertà collegata a responsabilità, la necessità di uccidere la quotidianità per elevare il proprio pensiero), lungi dall'essere lasciati in secondo piano dal mezzo utilizzato, ne costituiscono invece il perfetto oggetto: anch'essi – in quanto più complessi – sono generalmente taciuti per adeguarsi ai temi dominanti, più facili, immediati, subito percepibili.

mercoledì 9 luglio 2008

Una vita difficile - D. Risi (1961)


Capolavoro di Risi (dalla sceneggiatura di Rodolfo Sonego) e sottile trattato sulla società italiana del dopoguerra e sugli anni della ricostruzione. Alberto Sordi in stato di grazia. Piani sequenza interminabili, difficili da sostenere in scena (ma in certi casi davvero memorabili e meritatamente entrati nella leggenda del cinema italiano) ed una recitazione superlativa, con monologhi lunghi, voce e gestualità spesso alterate dall'alcol, ne fanno una prova a dir poco sontuosa.
Silvio Magnozzi è uno scrittore partigiano, che scrive un giornale clandestino nell'Italia del nord occupata dai tedeschi. Catturato da un nazista nei pressi del lago di Como, non viene ucciso solo grazie all'intervento di Elena, figlia della proprietaria di una locanda, che riesce a nasconderlo in un mulino dal quale però lui scapperà dopo alcuni mesi per tornare a combattere assieme ai compagni.
Finita la guerra, Silvio - un pò cialtrone ma con le idee ed i princìpi ben saldi - scrive su "Il lavoratore", giornale della capitale. In redazione, nei rapporti con il direttore, comincia a rendersi conto di quanto sarà difficile mantenere purezza ed intransigenza e non scendere a compromessi con il nuovo potere, incarnato fin dal primo titolo di giornale negli americani.
Stanno arrivando la ricostruzione, la ricchezza ed il benessere. Ma forse, con esse, anche una società più ingiusta, iniqua e violenta, ben lontana dagli ideali di libertà ed uguaglianza che avevano animato la Resistenza.
La società (tipicamente italiana) del servilismo verso i più forti, dello scudo (crociato) a difesa delle "tradizioni" e della "famiglia". La società dell'assenza di un "qualcosa chiamato società" (M. Thatcher).
La società del trio Stato (potere), mercato (denaro), famiglie (individui, invidie, competizione).
Tornato a Cantù per un servizio, Silvio incontra di nuovo Elena che decide di scappare con lui a Roma. Passeranno momenti difficili, senza soldi né cibo, fra scarpe usurate e ristoranti che non fan loro più credito. Dopo la vittoria della Repubblica al referendum del '46(vissuta gioendo silenziosamente in casa di ferventi monarchici, davanti ad un abbondante piatto di pasta), Silvio si trova davanti ad un bivio decisivo per la sua vita: mentre Elena è incinta, gli viene proposto di non pubblicare accuse pesanti nei confronti di un potente in cambio di denaro per lui e terreni intestati al nascituro. Dopo un doloroso (e toccante) dialogo notturno con la moglie, Silvio rifiuta, testardamente e coraggiosamente, fa pubblicare e si ritrova condannato per calunnia e più povero di prima.
Incarcerato per due anni a seguito dell'arresto per un'occupazione della sede della Rai, Silvio non assiste nemmeno alla nascita del figlio, e viene ripetutamente lasciato in isolamento per la sua cocciuta abitudine alla ribellione e a non abbassare la testa, che non perde nemmeno in prigione. Dietro le sbarre, scriverà "Una vita difficile", romanzo autobiografico sulla Resistenza che sarà considerato eversivo da tutti gli editori cui si rivolgerà e sbeffeggiato da un mondo del cinema troppo attento a pompose ed autoglorificanti ricostruzioni storiche che ad osservare la realtà. Uscito di galera, perde il lavoro ed assiste all'arricchimento degli ex-colleghi ex-amici ed ex-compagni, che hanno capito in fretta da che parte tirava il vento ed ora sono ex-giornalisti ridotti a megafono dei potenti.
La moglie e soprattutto la suocera lo costringono quindi ad abbandonare ideali e scrittura – che, quando vanno a braccetto, non danno da mangiare! - ed a studiare per prendere la laurea e trasferirsi a lavorare a Cantù in un ufficio pubblico, con uno stipendio sicuro "ed una bella macchina: che nessuno dica che mia figlia ha sposato un pezzente!". L'esame di laurea si rivela una pesante umiliazione.
Piantato da Elena dopo l'ennesima sbronza depressa e delirante, Silvio finirà in fretta (quasi troppa: unica pecca nella scrittura del film) per vestire i ruoli del perfetto medio italiano (quasi "fantozziano", merdaccia e via dicendo) e, per amore, accetterà le peggiori umiliazioni pur di garantire a sé e soprattutto alla signora un futuro di tranquililtà borghese.
Illuminata parabola sugli italiani e l'italietta con piccola riscossa finale. Toccante il momento di debolezza a tu per tu con il figlio. "Io sono uno che non ha cercato la fortuna".