mercoledì 5 agosto 2009

Paradise now - H. Abu-Hassad (2005

Cosa non si sa ormai della "guerra israelo-palestinese"? Quanti servizi di telegiornali, articoli, approfondimenti, inchieste, etc...? La tragedia ci viene costantemente presentata e ripresentata, sviscerata sotto ogni aspetto; l'intera vicenda, con tutto il suo carico di problematicità, è stata indagata, studiata in migliaia di libri nel corso della sua ormai più che sessantennale storia, a partire dalla proclamazione dello Stato di Israele nel 1948.
Eppure, c'è ancora qualcosa che nessuno è mai riuscito a spiegare davvero: cosa scatta nella testa di un kamikaze? Cosa può spingere a farsi esplodere addosso chili di tritolo per uccidere, sventrare, maciullare innocenti passanti, donne e bambini?
E' quello che prova a fare Abu-Hassad con questo Paradise now, storia di due aspiranti kamikaze che, dopo esser stati prescelti per un'azione terroristica a Tel Aviv, si avvicinano al momento fatale, in cui emergeranno le loro differenze e le loro contraddizioni.

Said e Khaled sono due giovani amici che vivono a Nablus, Cisgiordania. Lavorano come meccanici in un'officina, sono due bei ragazzi, con una famiglia alle spalle; Said ha anche una ragazza di nome Suha che cerca di conquistarlo e trova ogni scusa per passare a farsi sistemare la macchina scassata. E quindi?
Un primo punto a favore del film è sicuramente questo: riesce a mettere in scena la penosità di una vita "in gabbia" con semplici accenni, delicati pur nella loro drammaticità. Senza bisogno di mostrarci tragedie e miserie (che pure non mancano), senza bisogno di mostrare tutto nero, Abu-Hassad dipinge il quadro di una completa mancanza di libertà con pennellate leggere: i posti di blocco israeliani che impediscono i movimenti, l'impossibilità (descritta a contrario) di ottenere un permesso di lavoro a Gerusalemme, il reticolato che divide la Cisgiordania dal resto di Israele diventano allora l'emblema della claustrofobia, della totale assenza di libertà, quindi di futuro e di speranze per chi ha la sfortuna di nascere sotto un'occupazione.
Questo sono Said e Khaled: giovani normali ma che non vedono niente davanti se non miseria e frustrazione e finiscono per credere alle allucinazioni proposte loro dagli "ideologi del martirio".
E' da questa frustrazione e dall'odio cieco verso, indistintamente, tutti gli israeliani, instillato nelle loro menti dalla propaganda e, certo, dalle condizioni di vita drammatiche di larga parte della popolazione che nasce la loro decisione.
La religione, presente nei discorsi e nelle formule di rito, è però lasciata in secondo piano dal film, che sceglie invece - perlomeno nei momenti decisivi (il testamento, la confessione finale di Said, il dialogo in macchina fra Suha e Khaled) - un approccio più sociologico, a dispetto dello stesso titolo. Come a dire che non c'entrano le 72 vergini o qualche altra motivazione ultraterrena, ma che il fanatismo (e la visione estremistica della religione) è la conseguenza di scelte politiche e delle conseguenti condizioni di vita. E che è sul miglioramento di quelle (attraverso scelte politiche) che bisogna puntare per cercare delle soluzioni. Per non indurre tanti giovani a credere che solo nella violenza della lotta vi sia una via di fuga, che - come dice Khaled - palestinesi ed israeliani possono essere uguali solo nella morte e quindi è giusto il martirio e l'uccisione di innocenti.
A questo, a questa visione di morte si prova ad opporre Suha, figlia di un martire, che lavora per un'associazione di promozione dei diritti umani e che riteniamo essere la "portavoce" del regista. E' dando voce a chi - soprattutto fra i giovani - ha voglia di dialogare che si arriverà a qualche soluzione. Ma la strada è ancora lunga e, visto da Nablus, l'obiettivo di una pace e di una convivenza pare davvero irraggiungibile. Eppure, si potrebbe dire, anche in quelle condizioni qualcosa si muove nella giusta direzione.


Il percorso di avvicinamento all'ora x per i "nostri" kamikaze sarà comunque più complicato del previsto e i due amici, altro punto di merito per il film (che individualizza questi "aspiranti martiri" e non li generalizza, come invece siamo abituati a sentire fare), prenderanno strade diverse. Troppo incerto Khaled - forse per attaccamento alla propria vita, forse anche perchè il discorso di Suha l'ha toccato nel profondo - troppo sicuro Said, per il quale questo martirio rappresenta anche l'occasione di liberare sè e la sua famiglia dall'onta di un padre collaborazionista. E di vendicarsi per un'infanzia rubata, passata rinchiuso nella miseria di un campo profughi. Dove, per forza di cose, i germi del fanatismo continueranno a diffondersi, contagiando tanti di questi giovani "normali" ai quali viene quotidianamente sottratta ogni speranza, i quali muoiono lentamente ogni giorno e, dunque, in certi casi, scelgono la folle strada della morte immediata. Nella speranza vana che, dopo, ci sia qualcosa di meglio.

Se i pregi di Paradise now sono dunque l'approccio, l'originalità, la regia e la fotografia, il difetto principale di questo film - che ha ottenuto diversi premi ed è stato candidato agli Oscar come migior film straniero - sono forse i dialoghi, o meglio alcuni monologhi, anche importanti, che appiaono un pò forzati, che informano lo spettatore in pochi secondi. Forse gli stessi indizi potevano essere disseminati meglio qua e là.


K: "E allora saremo uguali a loro nella morte. Solo a noi spetta il paradiso"
S: "Il paradiso non esiste, sta soltanto nella tua testa, Khaled"
K: "Sempre meglio avere il paradiso nella testa che continuare a vivere in questo inferno. Si sceglie di morire solo per sfuggire al peggio"
S: "Che cosa succederà a noi? A noi che restiamo..."

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