giovedì 27 dicembre 2007

He got game - Spike Lee (1998)

Film "nero". Di un nero, con attori in buona parte neri, e prevalenza di ambientazioni interne, o notturne. La storia è di una banalità sconcertante: povero ragazzo dei quartieri malfamati, campione di basket, con una sorellina da mantenere, il padre in galera e la madre uccisa (dal padre). Di nome fa Jesus ed è di sani princìpi, tutte le università lo inseguono per arruolarlo nelle loro fila e lui, pur tentato da donne, denari, motori, alla fine sceglie col cuore.

Lo sviluppo (della storia) è altrettanto prevedibile: il padre esce (in libertà vigilata) per 7 giorni dalla galera, allo scopo di convincere il figlio campione ad iscriversi all'università per la quale tifa il governatore dello Stato (che in cambio avrebbe un occhio di riguardo nei confronti suoi e della sua pena, che prevede ancora 15 anni di carcere). L'incontro fra i due è uno shock. Dapprima Jesus non ne vuole sapere, poi cambia idea e fa la scelta che gli suggerisce il padre.

Spike Lee ci mostra, non senza generalizzazioni e cavalcando con piacere tutta una serie di stereotipi, la parte buona e quella cattiva del mondo cestistico americano. Da una parte i campetti di periferia, dove sputano l'anima generazioni di emarginati, che cercano con il basket di tenersi alla larga da pistole e sniffate di colla. Dall'altra il carrozzone mediatico e finanziario che sta alle spalle non solo del mondo professionistico – i cui campioni "fatturano" ogni anno svariate decine di milioni di dollari – ma anche di ragazzi alle prese con la scelta dell'università, vero e sregolato mercato di talenti sportivi intorno al quale sono in parecchi a volere la propria fetta di torta.
È un mondo marcio, che Lee dileggia, ma in maniera superficiale ed abusando di quelle "divisioni etniche" per cui l'italoamericano è il mafioso, i portoricani sono tutti delinquenti, fra neri è tutto un chiamarsi "fratello" e "sorella", "fottuto negro", "sei solo un negro", "rimarrai sempre un negro",...
Il basket è sempre in primo piano, come metafora della vita (piuttosto scontata e militaresca: la vita per chi viene dal ghetto è dura, bisogna allenarsi sempre, non accettare la fatica, respingere la sconfitta, resistere ai colpi bassi, ai tradimenti e alle scorrettezze, guardarsi dai falsi amici,...), oppure come semplice e puro gioco spettacolare. A mettere in scena questo secondo (e purtroppo secondario) aspetto Spike Lee è bravissimo. Tutto il resto invece appare una critica piuttosto superficiale, anche per la parata di star e allenatori del dorato mondo del basket professionistico americano a cui il regista pare in questo modo proprio strizzare l'occhio.

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