mercoledì 19 marzo 2008

Le cri du coeur - I. Ouédraogo (1994)

Forse uno dei registi africani più famosi, il burkinabè Idrissa Ouédraogo – di scuola francese (si intravedono timidi richiami alla nouvelle vague) e già premiato a Cannes nel 1990 per Tilai – delude nel suo primo lungometraggio "europeo".
La trama è molto lineare e prevede un trauma iniziale, dapprima rifiutato e respinto, infine affrontato e risolto con un lieto fine che punta a commuovere lo spettatore. I facili richiami a "leggende africane" e riti di formazione contribuiscono a fare di questo Il grido del cuore un film tutt'al più scorrevole.
Moctar è un bambino felice della sua vita in Mali: non ha il padre, emigrante in Francia, ma vive in un ambiente a perfetta "misura di adolescente", fra natura, animali, rumori autentici, in un villaggio dove tutti si conoscono. Accanto ha la madre ed il nonno malato che – con poche ma sagge parole, fra un colpo di tosse e l'altro – tramanda al nipote il suo patrimonio culturale. Sarà una presenza indelebile nel cuore e nella mente del ragazzo. Un giorno, mentre Moctar sta nuotando con gli amici, arriva la Notizia. Ibrahim, suo padre, dopo anni di sacrifici solitari, è riuscito ad ottenere un visto per la Francia per lui e la madre. Le reazioni sono opposte: lei, al massimo della gioia, saluta i compaesani gonfia di felicità ed orgoglio, lui, triste e consapevole, non vorrebbe abbandonare il nonno e pare avere già chiare in mente quelle che saranno le grandi difficoltà cui tutti andranno incontro a partire da quel giorno. Una bella sequenza ci mostra l'autobus della definitiva partenza di Moctar e della madre, che si allontana dal villaggio in linea retta, per poi voltare bruscamente e percorrere tutta la linea dell'orizzonte, da destra a sinistra, come a sottolineare la fatica e la difficoltà di quel distacco.
Una volta a Parigi, una fragile euforia – dovuta alla bellezza della città, alla posizione economica tutto sommato tranquilla, all'intelligenza di Moctar che gli permette di diventare subito il migliore della classe – lascia ben presto il posto alla dura realtà di quell'integrazione di cui si parla tanto ma che non si sa mai cosa significhi. Basta poco per far crollare il fragile castello di una famiglia immigrata, anche se integrata, secondo tutti i canoni classici (casa, lavoro, scuola).
In questo caso, a scombussolare tutto è una iena, che Moctar vede dappertutto, come il simbolo di una vita passata che non vuole/non può abbandonare.
Le conseguenze sono drammatiche perché nessuno naturalmente gli crede ("non ci sono iene in Francia!" è il ritornello ossessivo) e l'intelligente Moctar diventa improvvisamente Moctar il pazzo, Moctar il malato, costretto a subire le prese in giro dei compagni, i rimproveri dei genitori (anche loro sempre più nervosi e dubbiosi circa la bontà della scelta di riunire la famiglia), le visite di psicologi.
Sarà un uomo, francese, ex-camionista senza lavoro e prestigiatore di poco conto, con una brutta storia alle spalle, a "salvarlo", standogli vicino, assecondandolo, divertendolo, aiutandolo ad affrontare l'ostacolo con coraggio, anziché a scapparne. Così, salvando Moctar, comprendendo il suo disagio (quello sì, reale) e condividendolo, l'uomo - che vive ai margini della società, lungo i binari del treno - salva anche se stesso e scaccia i suoi fantasmi del passato. In più, trova lavoro nell'officina del padre di Moctar e giura amore eterno alla fidanzata più volte respinta e maltrattata. La morte del nonno in Mali, preannunciata da un'apparizione dopo la "guarigione" di Moctar, ed anestetizzata con una poesia di Birago Diop chiude il cerchio di questa favola dai buoni sentimenti.

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