mercoledì 26 marzo 2008

Pièces d'identités - M. Ngangura (1998)


Mani Kongo, vecchio re dei Bakongo, dopo lungo tempo, decide che è il momento di andare in Belgio a trovare sua figlia Mwana. La ragazza, all'età di 8 anni, era stata affidata dallo stesso re ad un collegio di suore perchè studiasse e diventasse medico. Mwana però è scappata dal collegio senza mai dare notizie di sé. Diventata grande, frequenta brutti giri, finisce nei guai e, dopo un periodo trascorso in carcere, proprio in contemporanea alla visita del padre riesce ad ottenere la libertà ed un permesso di soggiorno dalla polizia: in cambio dovrà infiltrarsi come ballerina in un locale africano e scoprire quante più informazioni possibili su un patetico ladruncolo – particolarmente inviso alle forze dell'ordine – che va in giro a fare furti mascherato e con le frecce, lasciando sul luogo del delitto un foglietto con scritto "Salvatore dell'umanità". Nel frattempo il padre, arrivato in Belgio con i suoi vistosissimi e pacchiani gioielli da re (copricapo, enorme collier, bastone regale) che gli costano numerosi sbeffeggiamenti, cerca invano di ritrovare Mwana, viene ingannato, derubato e scacciato dall'ostello in cui alloggiava. È così costretto ad impegnare i suoi simboli regali per avere un po' di soldi e a chiedere ospitalità all'unica persona che sembra essergli amico: un giovane meticcio belga-congolese di nome Chaka-Jo, taxista per copertura, cresciuto in un orfanatrofio belga. Chaka-Jo, all'insaputa del vecchio re, si innamora nel frattempo, ricambiato, di Mwana. Sarà lui a farli incontrare e tutti assieme faranno infine ritorno al villaggio dove Mani Kongo è re.
Intrecci ulteriori della trama: il capo della polizia di Bruxelles (personaggio viscido e parecchio infatuato di Mwana) era funzionario belga in Congo e, come ultimo atto della colonizzazione, era riuscito ad ingravidare la donna congolese che faceva le pulizie in casa sua. Da questo amore era nato un figlio, all'insaputa dello stesso commissario. Caso vuole che questo figlio sia il solito Chaka-Jo, vero perno attorno a cui ruota tutta la storia.
Questo fatto frutterà al giovane meticcio il salva-condotto che gli permetterà di sottrarsi alla giustizia – era lui il "Salvatore dell'umanità" - e di rimanere assieme alla sua nuova famiglia che fa ritorno in Congo, al villaggio.
Pièce d'identités è una favola dagli intrecci di una telenovela e a lieto fine. Piuttosto poco, se si eccettuano alcuni spunti interessanti. Le giovani generazioni dei congolesi di Kinshasa, la capitale, irriverenti nei confronti delle tradizioni e degli abiti dei villaggi (come quello di cui è re Mani Kongo). Lo smarrimento (la perdita di identità) a cui sono sempre esposti i giovani immigrati in un paese straniero, per i motivi più diversi: la difficoltà ad intrecciare rapporti solidi senza diventare altri da se stessi, il perenne rischio di perdere per qualche motivo il diritto a quel foglio (permesso di soggiorno) che li tiene legati (precariamente) al posto dove vivono, i sospetti e le particolari "attenzioni" che le forze dell'ordine hanno nei loro confronti, il concreto rischio di trovarsi presi in mezzo a "retate" di massa, coinvolti in brutte storie solo per essersi trovati in mezzo ad un gruppo di stranieri. La polizia colpisce nel mucchio e deve pur sempre raggiungere ogni anno il numero minimo di espulsioni da vantare davanti all'opinione pubblica.
Più debole appare invece la messa in scena dello smarrimento del re, catapultato in un mondo che lo ignora o lo deride, salvato da una specie di angelo incarnato da una donna nera guardiana delle tradizioni e degli avi, costretto ad ipotecare i suoi simboli regali (pièces d'identités), che proprio quando sta perdendo le speranze e comincia a sentirsi indegno del suo ruolo di re e di padre e ad abbandonarsi ai vizi, conquista le simpatie degli autoctoni e ritrova l'amata figlia.
Nella girandola di colpi di scena ed intrecci amorosi (a cui non sfugge il nipote di Mani Kongo, arrivato dal villaggio per portare un po' di soldi allo sfortunato zio e subito innamoratosi, ricambiato, della migliore amica di Mwana), il ritmo non manca di certo, ma è l'approfondimento psicologico dei personaggi - che pure era l'aspetto inizialmente più interessante - a risentirne. Il risultato? Un intreccio da mal di testa e un po' di superficialità. Ha vinto diversi premi, fra cui il FESPACO (Festival Panafricano di Cinema di Ouagadougou).

domenica 23 marzo 2008

Central do Brasil (W. Salles) - 1998

Ancora un film sudamericano che parla di un viaggio. E ancora un viaggio che è ben più che un semplice spostamento fisico, ma è ricerca, crescita, rabbia, sofferenza.
Dora è una professoressa in pensione, che scrive lettere per gli analfabeti della stazione di Rio de Janeiro per arrotondare. Ha avuto una vita difficile e le cicatrici sul suo carattere non esitano a manifestarsi. Quando la madre di Josué, che le si era rivolta per scrivere una lettera al marito che non vedeva da anni, muore investita da un autobus, Dora non esita a vendere il bambino ad una coppia di loschi trafficanti e, con i soldi incassati, si compra una televisione. Tornerà sui suoi passi e deciderà di accompagnare il piccolo – ma fin troppo sveglio – Josué alla ricerca del padre, nel Nord est del Brasile.
È una storia di solitudini, di povertà e miserie personali, affogate nell'alcol o nel mare della nostalgia ("Ho nostalgia di tutto", dice Dora nella sequenza finale, nell'unica lettera che non scrive su incarico di altri). È una storia di alcolizzati, orfani, abbandonati, solitari, di un paese con enormi problemi, di una religione come Valium sociale, di persone senza possibilità di riscatto. Ed è per questo che pare fin troppo lieto e commovente il finale, con l'abbandono (l'ennesimo) di Josué da parte di Dora, questa volta "a fin di bene". Per farlo crescere con i fratelli appena ritrovati, in un ambiente meno disumanizzante della metropoli di Rio.
È un continuo progredire verso il climax finale (il ragazzino che insegue l'autobus sul quale si sta allontanando Dora), questo film di Salles. Accompagnato da una bella e struggente colonna sonora, Central do Brasil lascia in sottofondo le problematiche brasiliane (rispolverandole solo quando utili alla trama) e si concentra sull'avvicinamento dei due protagonisti che riescono, nel corso di questo viaggio faticoso e ricco di avventure, a superare un'iniziale diffidenza reciproca, a mettersi in gioco senza più le iniziali paure, a lasciare in un angolo le disgrazie della propria vita, a "crescere" assieme.
Il risultato è un film che certo non eccelle in originalità, né in spunti di riflessione, ma che si fa apprezzare soprattutto per alcune sequenze. Ne ricordiamo solo alcune: quelle nella stazione di Rio (i pendolari che scendono dal treno, l'affollamento, l'assalto ai vagoni, il furto concluso in tragedia, le passeggiate di Dora in mezzo alla folla o la corsa di Josué) e quella della lettura da parte di Dora della lettera del padre di Josué: uno dei pochissimi casi in cui, durante un dialogo, l'inquadratura non è d'insieme ma passa da un volto all'altro, come a volerne cogliere le sfumature, nel momento di unica "presenza" di questo personaggio sempre assente, alcolizzato, ma che tutti vorrebbero vicino. Come un padre.

venerdì 21 marzo 2008

Masculin Féminin - J.L.Godard (1966)

Il film si apre e si chiude con il motivo della Marsigliese. È un ironico richiamo alla pomposa Francia ed ai francesi frivoli e superficiali. È un grido di solitudine e tristezza che lancia ai suoi connazionali chi vorrebbe occuparsi dei problemi concreti e gravi della società, trovando come risposta – anche da chi, come i giovani, dovrebbe esserne più toccato – solo un muro di ipocriti ed insuperabili valori tradizionali e di (solo apparentemente contrapposta ad essi) cinica voglia di modernità, disimpegno e vita"all'americana".

"Questo film si potrebbe chiamare I giovani di Marx e della Coca-Cola. Capisca chi vuole".
È questo solo uno dei titoli che compaiono, scritta bianca su sfondo nero, nel corso di questo polemico racconto diviso (o meglio de-strutturato) in 15 "fatti precisi", come anticipato dalla prima schermata.

Masculin Féminin è una lunga inchiesta sulla società francese – in particolare quella giovanile – negli anni delle lotte e dell'attivismo per la conquista di importanti diritti sociali e sul lavoro, ma al tempo stesso dell'arrivo e del fragoroso dilagare del consumismo, del mito americano, della vita frizzante, con le bollicine ("La generazione-Pepsi"). Tutto ruota attorno a questa contrapposizione ed al tentativo di approfondirla ricorrendo alle opinioni della gente comune.

Lo stesso procedere del film si basa in realtà su una serie di confessioni (quasi estorte) davanti alla macchina da presa, partendo dal personale, dal privato, per spingersi poi, fra il crescente imbarazzo degli intervistati, ad aspetti più sociali, politici di quegli anni.
Questo è vero non solo nelle interviste in senso stretto che Paul, giovane in cerca di un lavoro migliore e sondaggista indipendente (impersonato da Jean Pierre Leaud) fa ai suoi concittadini, intristendosi per la dilagante superficialità che ne emerge, ma anche nei dialoghi fra i protagonisti, quelli che si vorrebbero "naturali", spontanei. Anche questi, infatti, sono costruiti visivamente come interviste (pur non essendolo): le inquadrature non prevedono mai una tradizionale alternanza su chi parla. Al contrario, sfuggendo come sempre alle regole del cinema classico, Godard indugia a lungo sulle reazioni di chi è chiamato a rispondere alle domande (spesso anche imbarazzanti, su temi "sconvenienti"), lasciando fuori campo l'intervistatore di turno, anche per diversi minuti.
La "scusa" che permette a Godard di costruire questa sorta di riflessione dal basso sul mondo è il racconto di una storia di giovani, peraltro parecchio intrecciata e complessa da sbrogliare. Paul è innamorato di Madelaine, cantante pop con discreto successo e grande attrazione verso i piaceri frivoli. Madelaine è attratta da Paul ma troppo concentrata sul proprio successo personale per amarlo veramente ed ha paura di stancarsene. Invece, accetta e condivide la simpatia che nei suoi confronti prova l'amica Elizabeth, terzo incomodo di una storia decisamente impossibile. Robert, amico di Paul, è politicamente impegnato e cerca di coinvolgere l'amico – meno convinto di lui, o forse solo più disilluso – nelle lotte sindacali. Prova sentimenti forti per Catherine, ma lei pare essere affascinata da Paul.
Attorno alle confessioni dei ragazzi protagonisti ed al loro procedere nervoso e drammatico, come più si confà a dei giovani, parallelamente si sviluppa la storia della Francia di quegli anni.
La discoteca, le canzonette alla moda, i concorsi di bellezza, il consumismo e le corse agli acquisti, le sale giochi. Di tanto in tanto, un episodio drammatico ci ricorda anche la fragilità di tutto questo, il continuo rischio che questa corsa al successo, all'individualismo, all'affermazione personale porta con sé.
Alternando una serie di provocazioni (_gli scienziati americani sono riusciti a trasferire idee da un cervello all'altro con una semplice iniezione; _non è la coscienza degli uomini che ne determina la loro vita, ma le condizioni della loro vita che ne determinano la coscienza; _è possibile che tra una ventina d'anni ogni essere civilizzato sarà dotato nel suo organismo di apparecchi che determinano a comando sensazioni di piacere sessuale) alle aspirazioni ed alle gioie sempre più effimere e superficiali dei giovani francesi, Godard continua in quella che sembra proprio una disperata denuncia della pochezza contenutistica delle discussioni di quegli anni (ma che dire di oggi?). Tutti rifuggono gli argomenti "seri" che di tanto in tanto Paul cerca di introdurre nei discorsi fra amici o nelle interviste con sconosciuti: sessualità, politica, anticoncezionali, capitalismo, socialismo,...
"Sonno che a volte chiudi gli occhi del dolore, sottraimi un momento alla mia propria società". E' il titolo di un altro capitolo, forse la parte più propriamente politica del film, con il "Dialogo con un prodotto di consumo", ovvero un'intervista con "miss Sorriso", che trova magnifico, negli U.S.A. (dove è stata), la vita intensa e la sensazione di riuscire ad ottenere tutto ciò che si vuole, mentre dichiara di non essere minimamente interessata a sapere in quali zone del mondo c'è la guerra. Il Vietnam e la politca imperialista statunitense sono l'obiettivo di altre sequenze (un uomo che si dà fuoco per protesta contro la guerra, Robert e Paul che offendono ed imbrattano la macchina di un diplomatico americano con la scritta: Pace in Vietnam), che si concludono con altre amare riflessioni di Paul: "se uccidi un uomo sei un assassino, se ne uccidi a migliaia sei un conquistatore, se li uccidi tutti sei un Dio".
Sempre più solo, Paul continua i suoi sondaggi su tutti i temi possibili ed immaginabili, ottenendo – come lui stesso ci dice – risposte lontane dalla realtà attuale, saldamente ancorate al passato, prive di obiettività e di sincerità.
"Filosofo è l'uomo che oppone la sua coscienza all'opinione comune. Avere una coscienza vuol dire aprirsi alla realtà del mondo. Essere fedeli vuol dire comportarsi come se il tempo non esistesse. La saggezza è soltanto vedere la vita. Guardare la vita è saggezza"

mercoledì 19 marzo 2008

Le cri du coeur - I. Ouédraogo (1994)

Forse uno dei registi africani più famosi, il burkinabè Idrissa Ouédraogo – di scuola francese (si intravedono timidi richiami alla nouvelle vague) e già premiato a Cannes nel 1990 per Tilai – delude nel suo primo lungometraggio "europeo".
La trama è molto lineare e prevede un trauma iniziale, dapprima rifiutato e respinto, infine affrontato e risolto con un lieto fine che punta a commuovere lo spettatore. I facili richiami a "leggende africane" e riti di formazione contribuiscono a fare di questo Il grido del cuore un film tutt'al più scorrevole.
Moctar è un bambino felice della sua vita in Mali: non ha il padre, emigrante in Francia, ma vive in un ambiente a perfetta "misura di adolescente", fra natura, animali, rumori autentici, in un villaggio dove tutti si conoscono. Accanto ha la madre ed il nonno malato che – con poche ma sagge parole, fra un colpo di tosse e l'altro – tramanda al nipote il suo patrimonio culturale. Sarà una presenza indelebile nel cuore e nella mente del ragazzo. Un giorno, mentre Moctar sta nuotando con gli amici, arriva la Notizia. Ibrahim, suo padre, dopo anni di sacrifici solitari, è riuscito ad ottenere un visto per la Francia per lui e la madre. Le reazioni sono opposte: lei, al massimo della gioia, saluta i compaesani gonfia di felicità ed orgoglio, lui, triste e consapevole, non vorrebbe abbandonare il nonno e pare avere già chiare in mente quelle che saranno le grandi difficoltà cui tutti andranno incontro a partire da quel giorno. Una bella sequenza ci mostra l'autobus della definitiva partenza di Moctar e della madre, che si allontana dal villaggio in linea retta, per poi voltare bruscamente e percorrere tutta la linea dell'orizzonte, da destra a sinistra, come a sottolineare la fatica e la difficoltà di quel distacco.
Una volta a Parigi, una fragile euforia – dovuta alla bellezza della città, alla posizione economica tutto sommato tranquilla, all'intelligenza di Moctar che gli permette di diventare subito il migliore della classe – lascia ben presto il posto alla dura realtà di quell'integrazione di cui si parla tanto ma che non si sa mai cosa significhi. Basta poco per far crollare il fragile castello di una famiglia immigrata, anche se integrata, secondo tutti i canoni classici (casa, lavoro, scuola).
In questo caso, a scombussolare tutto è una iena, che Moctar vede dappertutto, come il simbolo di una vita passata che non vuole/non può abbandonare.
Le conseguenze sono drammatiche perché nessuno naturalmente gli crede ("non ci sono iene in Francia!" è il ritornello ossessivo) e l'intelligente Moctar diventa improvvisamente Moctar il pazzo, Moctar il malato, costretto a subire le prese in giro dei compagni, i rimproveri dei genitori (anche loro sempre più nervosi e dubbiosi circa la bontà della scelta di riunire la famiglia), le visite di psicologi.
Sarà un uomo, francese, ex-camionista senza lavoro e prestigiatore di poco conto, con una brutta storia alle spalle, a "salvarlo", standogli vicino, assecondandolo, divertendolo, aiutandolo ad affrontare l'ostacolo con coraggio, anziché a scapparne. Così, salvando Moctar, comprendendo il suo disagio (quello sì, reale) e condividendolo, l'uomo - che vive ai margini della società, lungo i binari del treno - salva anche se stesso e scaccia i suoi fantasmi del passato. In più, trova lavoro nell'officina del padre di Moctar e giura amore eterno alla fidanzata più volte respinta e maltrattata. La morte del nonno in Mali, preannunciata da un'apparizione dopo la "guarigione" di Moctar, ed anestetizzata con una poesia di Birago Diop chiude il cerchio di questa favola dai buoni sentimenti.

domenica 16 marzo 2008

Non è un paese per vecchi - Joel e Ethan Coen (2007)



Fresco fresco di strepitoso successo agli Oscar 2008 (film, regia, sceneggiatura non originale, attore non protagonista per Javier Bardem), l'ultimo film dei fratelli più famosi del cinema attuale racchiude buona parte del meglio della loro ormai lunga carriera. Con in più quella che forse è la sceneggiatura più matura.
In meno – parere personalissimo, ovvio – un po' di arguzia, originalità e ricercatezza rispetto almeno ad altri due loro lavori.
Ma sono – come sempre – i particolari a fare la differenza nei film dei Coen. Una carta da caramella accartocciata ed appoggiata su un tavolo a dispiegarsi, una moneta a decidere le sorti di tante vite, uno schermo televisivo spento che riflette allo stesso modo, a distanza di pochi minuti, uno spietato pazzo omicida (J. Bardem) ed uno sceriffo "d'altri tempi", onesto e buono, forse per questo vecchio e non adatto a questo mondo intriso di una violenza insensata, incomprensibile, inglobante.
La tensione è costante, i momenti di autentico sussulto sempre in agguato in questa specie di neo-western che alterna paesaggi mozzafiato e locations squallide all'interno dei peggiori motels alla frontiera fra Stati Uniti e Messico. Con il sangue – che scorre a fiumi – e gli spari – onnipresenti – a fare da trait d'union. Ricercatissimo e curato il sonoro: tutto quello che sentiamo (a volte anche a volumi irrealistici) è funzionale alla storia ed alla suspence. Ma è quando la macchina da presa va ad inquadrare ad altezza piedi che c'è davvero da preoccuparsi. Che riprenda una maledetta valigetta causa di tutti i guai, una terrificante quanto inusuale arma (una bombola che spara aria a pressione letale), le scarpe dei personaggi (dai tacchi rumorosissimi), oppure semplicemente le loro assenze, è a quell'altezza che si giocano i momenti-chiave del film. Che dopo quasi due ore di tensione e cattiveria si chiude con due bei monologhi ragionati dello sceriffo (Tommy Lee Jones) sulla sua impotenza e lentezza (arriva sempre tardi sulle scene dei delitti) di fronte alla criminalità estremizzata e psicopatica di questo "paese per giovani".
Bravi e premiati, i Coen, ma hanno fatto di meglio.

martedì 11 marzo 2008

YOL - Goren (1982)

Scritto da Yilmaz Guney, regista curdo, dal carcere dove era rinchiuso per omicidio. Girato dall'amico Goren. Montato dallo stesso Guney in Svizzera, dopo essere evaso usufruendo di un permesso. Già questi elementi basterebbero per fare di Yol - vincitore al Festival di Cannes del 1982 – un film affascinante. Se poi ci si aggiunge il racconto spigoloso di storie troppo difficili, il paesaggio quasi sempre ostile (quando non letale), la guerra "a bassa intensità" e la continua discriminazione nei confronti della popolazione curda, la militarizzazione della società turca, lo spietato maschilismo, misto ad un concetto di "onore" che purtroppo anche in Italia conosciamo bene, ed un fanatismo religioso cieco ed ignorante, ecco che il film diventa anche tragico.
Yol è, detto in poche parole, il racconto di alcuni giorni vissuti fuori dal carcere grazie ad un permesso. Giorni in cui, per quanto "liberi", i protagonisti si sentiranno paradossalmente ancora più oppressi che all'interno di un cella.
La storia è quella di cinque detenuti che – dopo tanti anni – cercano di rientrare presso le proprie famiglie (o quello che ne resta), finendo per rimanere inesorabilmente schiacciati dal peso di troppe cose per le quali – sembra dirci Guney – in una società chiusa fra autoritarismo militare e barbari estremismi, chi commette un errore finirà per portarselo appresso (con l'angoscia ed il peso del rimorso) per il resto della sua vita. Non c'è spazio per il perdono in questo film, non c'è spazio per la felicità.
"La tristezza ha innumerevoli tonalità, diverse facce", scrive in apertura lo scrittore-montatore Guney che in "Yol" [La strada], ci mostra senza enfasi, né sconti cosa significa per i curdi vivere in un perenne stato di oppressione culturale, persecuzione politica e repressione fisica. Ci mostra la tragedia di un popolo attraverso la scoperta anche dei suoi lati peggiori, figli di una situazione di miseria materiale e culturale imposta dalle autorità.
Terribilmente attuale, nonostante tutti gli sforzi per legittimare le istituzioni turche, eterne promesse dell'Unione Europea e ultimo baluardo (geografico) prima degli Stati islamici. Un ruolo strategico quello della Turchia, alla ricerca di un difficile equilibrio interno fra "laicità" e "religione" che finisce per ripercuotersi sulle rivendicazioni di autonomia di un popolo scomodo.

venerdì 7 marzo 2008

The Agronomist - Jonathan Demme, 2003

"The Agronomist" è un documentario diretto da Jonathan Demme, presentato alla 60 ° Mostra del cinema di Venezia nella sezione "Nuovi territori". Il documentario e' un omaggio al giornalista, radioreporter e militante dei diritti umani Jean Dominique e racconta la storia della sua lotta contro l'ingiustizia e l'oppressione e la sua crociata per la libertà e la democrazia ad Haiti.In novanta minuti il regista narra 50 anni della battaglia condotta da Dominique tramite la radio da lui fondata, Radio Haiti, una vera e propria voce di libertà in un Paese oppresso dalla dittatura.
I documenti utilizzati sono lunghe interviste che lo stesso Dominique ha rilasciato sia ad Haiti sia durante i due periodi di esilio a New York insieme alla moglie e giornalista nella radio inframmezzati da filmati girati ad Haiti che riprendono la popolazione dell'isola nelle zone rurali e nella capitale Port au Prince.
Il lavoro di Demme ha un forte impatto emotivo dovuto principalmente alla travolgente personalità di Dominique. Nato da una famiglia agiata e cresciuto in clima colto e liberale, Jean diventa un agronomo negli anni '50 studiando anche a Parigi.
Tornato sull'isola, inizia ad istruire i contadini - ai quali resterà legato fino alla fine - su come sfruttare al meglio la terra che lavorano. In una Paese governato da pochi latifondisti, la sua attività non poteva non cozzare con gli interessi di quest'ultimi.
Quando gli capita la possibilità di acquistare un'emittente radiofonica, Jean non perde tempo e trasforma la radio in un vero e proprio strumento di informazione e quindi di libertà.
La direzione e’ chiara: informare.
Niente piu’ dell’informazione rende le donne e gli uomini critici verso la societa’ e l’autorita’ incarnata dalle istituzioni.
Una personalità contraddistinta da un forte senso di indipendenza culturale ("Tu sei haitiano. Non sei francese, non sei inglese, non sei americano" gli ripeteva il padre) si scaglia, sia contro I Duvalier prima padre e poi figlio dittatori di Haiti sia contro gli Stati Uniti, rei di aver da sempre manipolato le sorti politiche di Haiti, tenendola sotto il giogo di un potere violento e repressivo. "Una telefonata" dice Jean "basterebbe una telefonata da parte del Presidente degli Stati Uniti e ad Haiti tornerebbe la democrazia". Emblema di indipendenza intellettuale e politica, non risparmia quei governanti della sua isola che si allontanarono dagli ideali di democrazia e onestà per i quali erano stati eletti.
Questo documentario parte sicuramente da una base sfavillante che e’ il protagonista, sorridente, arrabbiato che con ogni atteggiamento riesce a conquistare e con totale assenza di retorica e di autocommiserazione racconta la battaglia sua e di parte della popolazione per ottenere un vero cambiamento sociale frustarata da troppe sconfitte e tragici avvenimenti.
La radio ora è chiusa e ancora oggi Haiti vive in un clima di violenza e instabilità oltre ad un decenalle anzi secolare stato di emergenza umanitaria.

mercoledì 5 marzo 2008

Un'ora sola ti vorrei - Alina Marazzi, 2002


Memoria, nostalgia, dolcezza.
Non deve essere stato facile per Alina Marazzi, giovane regista esordiente, realizzare un film sulla vita di sua madre Liseli, morta suicida all'età di 33 anni. Cucire, organizzare, selezionare il materiale che avrebbe celebrato, in questa coraggiosa pellicola, la donna che le ha dato la vita, ma di cui non ricorda il volto.


La Marazzi si serve dei filmati registrati dal nonno, a partire dagli anni 20, in cui vengono riprese le vacanze al mare, i pic-nic in montagna, le feste. Ma questi video, in cui la famiglia borghese è sempre rappresentata nei momenti di felicità, stridono fortemente con i diari e le lettere di Liseli (l'altra importante fonte di cui la regista entra in possesso). Che per tutta la durata del film si contrappongono alle immagini sempre sorridenti, ai ritratti di superficie in cui prevale l'ipocrisia borghese "dell'ostentare".
Sono i diari della donna, di cui la figlia legge i passi più significativi, a mostrarci in realtà una persona sofferente, a cui le convenzioni dell'ambiente circostante stanno strette. Liseli fatica a trovare un posto nel mondo, è giudice severissima di se stessa, si rimprovera continuamente di "non essere all'altezza". Contro questo disagio esistenziale nè l'amore profondo del marito Antonio, cui dedica prose appassionate, nè la nascita dei figli, possono nulla.
Dalla casa di cura in cui trascorre l'ultimo periodo della sua vita - documentato nel film dalla lettura delle cartelle cliniche - Liseli mette a fuoco le dolorose incomprensioni con l'austero padre, si ribella alle terapie poco ortodosse cui è sottoposta e soprattutto al principio per cui un uomo possa giudicare un altro uomo, etichettandolo come "malato di mente".



E' inevitabile arrivare alla fine del film con un grande magone dentro e una profonda commozione. Senza mai sfiorare, però, patetismo o sentimenti di angoscia.

Sulle note dell'omonima canzone, "Un'ora sola ti vorrei" lascia gli occhi dello spettatore colmi di lacrime "dolci"...è la nostalgia che pervade dolcemente la vita, è il dolore che è essenziale per accettare le perdite e forse un giorno superarle.

domenica 2 marzo 2008

Il petroliere - P.T.Anderson (2007)

Duro, senza spazio per le diversità e le debolezze, affarista. Questo è il fondamentalismo americano nella sua visione più estrema, proposta da Anderson nel bellissimo "Il petroliere". Un fondamentalismo dove la religione (evangelica-pentecostale) e gli affari si mischiano costantemente, in cui chi è povero, triste o malato lo è per sua colpa (e allora deve pagare il pastore della comunità affinché gli dedichi un sermone), mentre chi è ricco deve comunque pagare il pastore della comunità per purificarsi e guadagnarsi buoni auspici per gli affari.
Anche questa è stata la storia degli Stati Uniti, soprattutto del profondo sud. La storia dei petrolieri, del loro business e della religione pronta a mischiarsi con tutti, per ottenere il suo (sacro) guadagno. Sarà un caso che l'attuale presidente degli U.S.A. è anche petroliere e fervente pentecostale? I Born-Again-Christians basano il loro culto sulla fede nei miracoli e la capacità di "liberazione dal demonio" da parte dei pastori (a pagamento, s'intende..). È una dottrina manichea che separa nettamente fra il Bene ed il Male (ricorda niente?), che teorizza – nei suoi tratti di destra più estremi e razzisti – la distruzione dei miscredenti. Per capire tanto di quello che ancora oggi succede in alcuni Stati degli U.S.A., occorre forse approfondire il discorso iniziato da questo durissimo film.
La spietata corsa – nei primi anni del secolo scorso – all'accaparramento di tutti i terreni utili da sforacchiare per succhiarne petrolio, senza rispetto ed attenzione per niente. Né per la natura, né per i propri familiari, né per gli abitanti, spinti a vendere terreni dai soldi e dalle promesse di un netto miglioramento di vita della propria povera – ma ancora onesta – comunità.
Vischioso com'è, il petrolio – e tutto quello che si porta appresso, religione fanatica compresa – si appiccica addosso a tutti coloro che ne vengono a contatto in questo film e che, prima o poi, finiranno per pagare le conseguenze della propria avidità (anche quando in buona fede).
La religione qui non è che una copertura per gli affari; gli sproloqui su "famiglia", "valori", "patria", "Dio", impallidiscono, tremano e svaniscono davanti alla spietatezza con cui la (sacra) alleanza – soltanto in parte cammuffata da conflitto – fra pastori e capitalisti d'assalto convince tutti, con le buone o con le cattive, a credere che il petrolio sia un miracolo divino e lo sviluppo che ne deriva sia una benedizione per tutti. E non arricchimento sfrenato per pochi, prebende a pagamento e carità compassionevole per gli altri. Ai quali non resta che pregare e pregare nell'attesa di un miracolo, di una manifestazione (economica) di Cristo. Promessa e venduta da qualche santone telepredicatore, negli U.S.A. o (sempre di più) nell'Africa evangelizzata.
Film scomodo, forse anche più di quel che appare; film attuale benchè ambientato più di cent'anni fa. Un Daniel Day Lewis meraviglioso ed un Paul Dano al livello contribuiscono a fare di questo "Il petroliere" un grandissimo film. Dove la storia di una certa America mitizzata (quella del "capitalismo dai sani valori") è lucidamente messa in luce in tutta la sua ipocrisia.
Dove, cadendo assieme a Daniel Day Lewis in quella miniera, morendo schiacciati dalla trivella come un operaio, rimanendo sordi a seguito di un'esplosione assieme al figlio, invecchiando nell'odio, nella solitudine e nell'alcolismo come il petroliere, capiamo – se ancora non l'avessimo fatto – che il progresso, la crescita, l'arricchimento hanno sempre – per tutti – un rovescio della medaglia. Anche se all'inizio a pagare è sempre qualcun altro.

Bilal. Il mio viaggio da infiltrato nel mercato dei nuovi schiavi - F.Gatti (2007)



Chi sono gli eroi dei giorni nostri? Si chiamano Joseph, Daniel, Amadou, Mohamed, Stephen, Laouan, James. Vengono da Camerun, Nigeria, Mali, Niger, Senegal. È l'esodo tragico e quotidiano di migliaia di giovani africani. È l'abbandono della propria terra per via delle guerre, delle carestie, delle violazioni dei diritti umani, della speranza di un futuro migliore per la propria famiglia. È l'inganno più grande della storia. Perchè quando parti, non puoi più tornare indietro.
Gli eserciti marci e corrotti e i banditi ti spogliano di tutto, ti bastonano, ti umiliano. Allora devi prostituirti o fare lo schiavo per mesi (o anni) prima di ripartire. Così fino alla razzia successiva. Ma non tutti riescono a ricominciare il viaggio e molti restano semplicemente a metà, prigionieri di un luogo – stranded –, mendicanti per un tozzo di pane, ladri per sopravvivenza, alcolizzati o pazzi.
È un'economia malata quella dei paesi interessati dalle rotte dell'emigrazione. Un'economia che si regge sulle misere tasche di questi sventurati (di tanto in tanto alimentate da una colletta improvvisata dal villaggio di provenienza, che permette di continuare a sperare e non tornare indietro "da fallito", oppure da un po' di soldi inviati da un parente "che ce l'ha fatta" e che aspetta in Europa). Un'economia intera che si regge sulle loro braccia, sul loro sudore, sul loro corpo. Migliaia di tasche da svuotare e di corpi di cui impossessarsi, ogni giorno.
E da quando l'Italia ha fatto della Libia (e del suo dittatore, "leader della libertà", secondo un ex-presidente del Consiglio italiano) il suo principale alleato nella lotta all'immigrazione clandestina, il guadagno per le mafie e per questi eserciti (del male) è doppio. Sì, perchè ora i migranti sono depredati anche al "ritorno", dopo essere stati rastrellati in Libia e durante le deportazioni collettive verso i Paesi di provenienza. Che in molti casi si trasformano semplicemente in tragici abbandoni in mezzo al deserto.
L'Europa – e purtroppo l'Italia in particolare – ha responsabilità enormi in tutto questo. E non solo per questi scellerati accordi con Stati che non rispettano i più elementari diritti umani. Ma soprattutto per creare e mantenere al proprio interno le condizioni per cui la manodopera straniera serve clandestina, irregolare, senza diritti, sempre sul filo dell'espulsione. Per poterla ricattare, sfruttare, al limite anche ucciderla senza rischiare più di tanto.
Tutto il sistema italiano sembra proprio finalizzato a questo: dalle grandi gabbie in cui i migranti sono rinchiusi al loro arrivo (dopo mesi e mesi di deserto e violenze e la traversata del Mediterraneo), ai metodi nazisti e corrotti di certe forze dell'ordine italiane che si sfogano subdolamente sui più deboli per proteggere e garantire gli scafisti ed i loro squallidi traffici; dal razzismo spicciolo di un bigliettaio delle ferrovie, figlio dell'ignoranza dilagante di questi nostri tempi, alla caritatevole "accoglienza" di cooperative ed associazioni (spesso di ispirazione religiosa) che si abbeverano come gli altri alla fonte della gestione dei Centri di detenzione per migranti, fino ai campi di raccolta della frutta e delle verdure, veri e propri campi di lavoro schiavistico simili alle piantagioni di caffè o di cotone dell'America di due secoli fa.
Tutto questo accade davvero. E anche piuttosto alla luce del sole. Non è esagerazione, non è propaganda, non è invenzione. Gatti ce lo racconta in questo libro documentatissimo, frutto di diverse inchieste condotte dal 2003 e pubblicate su "L'Espresso". Ma è una mosca bianca. In televisione e sui giornali sentiamo e leggiamo solo le dichiarazioni urticanti dei politici ed il loro schifoso marciare sulle fobie della gente; è un'ipocrisia che legittima e perpetua uno sterminio quotidiano. Che permette ai trafficanti ed ai mafiosi di tutto il mondo di arricchirsi enormemente. Di comprare armi con cui scatenare altre guerre per impossessarsi di ancor più denaro. Generando ulteriori vittime, ulteriori miserie ed ulteriori migrazioni. In questa guerra che si gioca sulla pelle di milioni di persone l'Italia e l'Europa hanno scelto di stare dalla parte dei trafficanti, dei dittatori, degli eserciti che violentano le donne e ammazzano di botte gli uomini dopo averli fatti inginocchiare nudi sulla sabbia del deserto ed averli depredati di tutto. L'Italia sta da questa parte. Gatti-Bilal ci dice questo. Lo dice chiaro e forte, dopo averlo sperimentato sulla propria pelle. Non possiamo più dire di non saperlo.