sabato 13 settembre 2008

La terra degli uomini rossi (M.Bechis) 2008

Presentato all'ultimo festival di Venezia, dove è stato accolto da lacrime e standing ovation ma non premiato, La terra degli uomini rossi non convince appieno. Il tema di fondo non è troppo originale, per quanto costantemente ignorato dai mass media e relegato a quell'informazione "di nicchia" che a volte rischia – paradossalmente – di far bollare in maniera automatica i propri contenuti come noiosi, poco interessanti, oppure di parte. Bechis ha sicuramente il merito di portare questo argomento ad un pubblico più vasto ma, per farlo, deve ricorrere a qualche artificio di scrittura e di regia che rischia di rendere il film a tratti caricaturale, a tratti leggermente patetico. La requisizione delle terre agli indios nel Brasile – così come avviene ed è avvenuto in tutta l'America latina, che pure negli ultimi anni ha dato importanti segnali in senso opposto – è uno di quegli argomenti spinosi e delicati che dovrebbero invece interessare tutti quanti. Non solo per un istintivo – in chi ce l'ha – senso di vergogna per l'ennesima ingiustizia che l'uomo bianco, colonizzatore spietato e incorreggibile, perpetra ai danni di chi ha pochi mezzi per difendersi. Ma anche perchè, se la vogliamo mettere su un piano puramente ecologico, le popolazioni originarie riescono a tutelare l'integrità delle foreste, la biodiversità e la fertilità della Madre Terra molto meglio dei fazenderos bianchi, interessati solo alla deforestazione selvaggia per impiantare colture intensive, spremervi cereali (non per mangiarli, oggi va di moda trasformarli in benzina...) e, naturalmente, conservare coi denti e con le armi i privilegi acquisiti grazie ai soldi ed ai diversi "governi amici" che si sono succeduti nei decenni. Per fare tutto questo, occorre che chi potrebbe avere qualcosa da ridire sia esiliato, ridotto al silenzio, messo sulla strada dell'autodistruzione. Ecco a cosa servono le riserve per gli indios nell'America latina.


Privi di ogni possibilità di andare oltre una semplice sopravvivenza, gli indios aspettano solo di essere reclutati per un lavoro a giornata in qualche fazenda, tanto per guadagnare pochi spiccioli che serviranno ad acquistare la "dose" di superalcolico necessaria a sopportare meglio la vita. È normale che, in questo ambiente opprimente, siano i giovani a risentirne di più. Infatti, i suicidi si susseguono (non solo nel film, purtroppo: sono centinaia i giovani Guaranì-Kayowa che si sono tolti la vita negli ultimi anni, senza apparente motivo).
Particolarmente odioso, davanti a tali tragedie, risulta l'atteggiamento dei padroni bianchi e di tutto il loro entourage: la villa con piscina e la servitù, le escursioni truccate che offrono ai turisti prezzolando gli indios affinchè si mostrino come particolare esotico, le reazioni stupite ("Questi, se gli dai un dito, si prendono tutto il braccio") allorché un gruppo di indios decide che è ora di riprendersi il maltolto ed occupa una porzione – minuscola – di una proprietà per abitarci e coltivarla. E proprio questo rapporto ambiguo che viene a crearsi talvolta fra padrone-usurpatore (che fa passare veri e propri sfruttamenti per concessioni ed opportunità di guadagno) e sottomesso-recluso (che in certi casi accetta queste "concessioni" di buon grado) rappresenta l'aspetto più interessante del film.
La dignità di Nadio, che rifiuta di lavorare a giornata per i bianchi pur in cambio di parecchi (per gli standard degli indios) soldi, parte dagli stessi presupposti dei giovani suicidi: che vita è questa, sembra dire l'autorevole Nadio, vale la pena di essere vissuta così? O è meglio - ed è qui che sta la forza che lo distingue - morire nel tentativo di ribellarsi?
All'estremo opposto, la serva indios che lavora nella villa dei fazenderos. Accetta passivamente tutti gli ordini, manda giù insulti pesanti ed è costretta pure a subire in silenzio squallide attenzioni sessuali. Ma guadagna. La sua quotidiana fatica le permette di avere sempre il cibo a tavola e, magari, un giorno, di comprare ai figli quelle scarpe da ginnastica che sempre più faranno gola a giovani che con ogni probabilità non hanno più tanta voglia di girare scalzi e cacciare gli animali.


Il legame che, successivamente all'occupazione degli indios, nasce fra Osvaldo, giovane aspirante sciamano, e la figlia dei bianchi vuole forse essere un abbozzo di dialogo fra diversi, che – per come stanno le cose – è del tutto improponibile. Se si vuole parlare, conoscersi, accettarsi, è fondamentale innanzitutto essere su un piano paritario. Viceversa, come Osvaldo capirà tragicamente nel finale, le ingiustizie e le prevaricazioni sono destinate ad emergere, seppellendo ogni tentativo di dialogo.


Il film si chiude nell'incertezza fra la minaccia (degli indios) di rivolta permanente fino alla riconquista delle terre sottratte e la fiducia (dei bianchi) che tutto si risolverà nel giro di qualche mese. Chi ha ragione? Ai governi latinoamericani la risposta, nella speranza che esistano altre strade per restituire a popoli calpestati da secoli e pressoché annientati, dignità, diritti e quel minimo di "sicurezza" cui tutti avrebbero diritto, ma che da sempre, ipocritamente, si invoca solo a tutela dei più forti.

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