venerdì 5 dicembre 2008

Elephant - G. Van Sant (2003)


Palma d'oro e premio per la miglior regia a Cannes, Elephant è un lavoro curato e di forte impatto, nonostante una sceneggiatura tutto sommato povera e priva di colpi di scena.
I protagonisti sono un gruppo di giovani, ciascuno alle prese con i suoi problemi e le sue paranoie tipicamente adolescenziali ma, soprattutto, con una grande, infinita solitudine. È questo sentimento (unito ad una forte inquietudine) che resta più di ogni altro allo spettatore al temine degli 80 minuti di Elephant: non c'è condanna, né assoluzione per gli autori della strage (che fa evidente riferimento a quella di Columbine del 1999, pur potendo legarsi ad ogni altra strage perpetrata da ragazzi all'interno di un istituto scolastico).
Quello che colpisce – e che viene visivamente enfatizzato dal ricorso ossessivo di Van Sant alla carrellata a seguire i ragazzi – è il loro completo spaesamento, il loro incedere solitario, triste e sempre uguale per i larghi e spesso deserti e bui corridoi della scuola, in cui il massimo scambio che vi avviene è uno sguardo provocante, o un "batti cinque".
Non c'è nemmeno nessun adulto che possa venire incontro al loro malessere: non potrà il padre ubriacone, non potrà il preside ottuso e severo, non potrà il professore ciarlatano, la madre assente,...e così i ragazzi finiscono per trovare ragioni di vita o modelli da imitare nella linea da mantenere, nel nazismo, nell'alcol, nella passione per le armi. Ferendosi a vicenda, in una sorta di competizione tra fragilità in cui all'aggressivo tocca il ruolo di torturatore, al timido quello della vittima.
È una continua disgregazione quella che mette in scena Gus Van Sant: della famiglia, della scuola come istituzione in grado di comprendere, far crescere e maturare i ragazzi, ma anche delle amicizie, che sembrano basarsi più sulla momentanea, opportunistica condivisione di piaceri passeggeri che non su un reale coinvolgimento emotivo o su uno scopo da raggiungere.
Cosa suggerisce la regia, nel decidere di mostrarci le stesse scene dal punto di vista di diversi ragazzi? Che il vuoto riguarda tutti, nessuno escluso. Che un senso nella vita di questi giovani "normali" non si vede proprio, che in questo ognun per sé e tutti contro tutti davvero l'esistenza si rivela inutile e triste.
La morte di Benny, il ragazzo che aiuta una compagna a saltare fuori dalla finestra per mettersi in salvo e poi, nel silenzio irreale della strage, decide di andare consapevolmente incontro ad una morte certa ne rappresenta in un certo modo l'emblema.
Filma i giovani, Van Sant, per accusare gli adulti, o meglio il mondo che gli adulti hanno contribuito a creare. Un mondo sempre più diviso, fatto di individui deboli che però devono dimostrarsi forti e "duri" per restare a galla. Fino a che, talvolta, ci scappa l'eccesso, lo scoppio di rabbia apparentemente improvviso ed inaspettato, apparentemente folle, ma che tuttavia – ad un occhio sensibile – è tutt'altro che tale. Questo film, sminuzzando il racconto e ricostruendolo da diversi punti di vista prima di arrivare al climax vuole dirci proprio questo: tutte le tragedie, anche le più incomprensibili - e questa certo lo è -, hanno una radice.
Colonna sonora affidata in larga parte a Beethoven, di kubrickiana memoria, così come le carrellate per i corridoi di quella scuola, così simile ad un Overlook hotel.
"Elephant allude al proverbio americano dell' "elefante nella stanza" di cui paradossalmente nessuno si accorge" (il Morandini 2007)

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