mercoledì 12 agosto 2009

L'odio - M. Kassovitz (1995)

La descrizione di venti ore di tre amici che abitano in una banlieue di Parigi, il giorno dopo dei violenti scontri con la polizia che hanno portato alla morte di un giovane di origine maghrebina.

Miglior regia a Cannes '95, L'odio è effettivamente un concentrato di inquadrature azzeccate e fantasiose, tecnicamente all'avanguardia e dalla resa perfetta. Se a questo si aggiunge un bianco e nero d'effetto, dialoghi riusciti, interpretazioni eccezionali (V. Cassel, H. Koundé, S. Taghmaoui), piccole "chicche"di scrittura (la scena del cocainomane, la citazione di Taxi driver, la vacca in periferia,...) ed una colonna sonora superba, beh..ecco che ad uscirne non può essere che un grande film.

La tematica non era facile: si sa quanto film su emarginazione, ghetti di periferia, razzismo possano faclmente scadere nella banalità e faciloneria, farsi megafono di stereotipi fin troppo comuni. Ma non è questo il caso.
L'odio colpisce duro fin dalla prima scena e, al ritmo di rap (in senso letterale), trascina lo spettatore fin nell'inferno senza uscita di una vita ai margini.
Lo fa senza ricorrere a frasi fatte, senza ricorrere all'esposizione della violenza, se si eccettuano un fermo di polizia particolarmente ruvido ed un pestaggio di cui rimane vittima un naziskin (interpretato dallo stesso regista).
Per il resto, la violenza in senso stretto, la violenza mostrata non fa parte di questo film. Eppure L'odio è un film violentissimo, dove la violenza è dappertutto, non dà tregua, ti insegue e ti bracca, fino a lasciarti sgomento. Ma è nella creazione passo dopo passo del clima (e non nel suo spiattellamento) che sta la maestria dello scrittore di sceneggiature ed il manico del regista (in questo caso i due coincidono).

Una pistola, persa da un poliziotto durante gli scontri nella banlieue e ritrovata da uno dei protagonisti, che troviamo spesso puntata verso la mdp, così come talvolta gli sguardi dei protagonisti, altre "bocche da fuoco" pronte a sparare. Le urla, che accompagnano pressoché tutti i dialoghi, sempre lì lì per trasformarsi in scontri violenti, per qualunque stupido motivo. La droga, che vediamo appena per pochi istanti, ma dai quali capiamo che è l'unico modo per fare soldi per quei ragazzi. La mancanza totale di prospettive, la voglia di fuga e la disillusione di cui soffrono i protagonisti (il cartellone pubblicitario trasformato con lo spray). La distanza incolmabile fra il mondo dei ricchi intellettuali (probabilmente "di sinistra") ed il loro, troppo autenticamente problematico per poter essere accettato, o anche solo compreso e non etichettato come "disagio delle periferie", qualcosa da raccontare il giorno dopo agli amici. Senza capire che questo è il disagio delle nostre società, tutte intere, non delle periferie. E' probabilmente il disagio necessario affinchè vi sia l'agio di tutti gli altri. Che va difeso. Ed ecco allora la risposta dell0 Stato, quello Stato che è onnipresente nella banlieue, ma solo in divisa, che mostra i muscoli, che aggiunge violenza a violenza, in una spirale che non si sa fin dove porterà. Uno Stato che, per mezzo dei suoi funzionari addetti alla "sicurezza", arriva ad uccidere, o a torturare per il piacere di farlo. La scena del fermo violento in cui il poliziotto insegna alla giovane recluta come femarsi appena prima di lasciarsi troppo prendere la mano ("non perchè non si vorrebbe andare oltre eh...") vale più di un manuale o di un'inchiesta.

Film che sconvolge e turba perchè non ha mai un attimo di tregua, di autocompiacimento, di consolazione. Anche nei momenti più "tranquilli", un dialogo, una mossa della macchina da presa, un effetto, un rumore arrivano subito a riprenderti per i capelli e a riportarti giù, in strada. Da dove non si scappa. Da dove non si esce, vivi.

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