martedì 26 febbraio 2008

Gli intoccabili - B. de Palma (1987)

Gangster movie ambientato nella Chicago degli anni '20, regno di Al Capone e del proibizionismo. La storia è nota: il mafioso, spietato boss domina il mercato clandestino degli alcolici rifornendo i "quartieri alti" grazie alla protezione della politica e di parte della polizia. Lo fa alla luce del sole, del tutto impunito, nascondendo i suoi enormi introiti dietro una fitta e complessa rete di aziende fantoccio, che fanno interamente capo a lui. Finirà condannato per evasione fiscale.
Gli intoccabili sono un ristretto gruppo (4, di cui 2 poliziotti) di valorosi ed onesti servitori dello stato che accettano di rischiare - e rimetterci - la pelle pur di incastrare il boss.
Film "americano", in cui è esaltata la contrapposizione fra "buoni" e "cattivi", ritagliando un ruolo addirittura mitico per gli eroi senza macchia e senza paura, mosche bianche nella realtà di quella Chicago.
La schematicità dei personaggi e la fissità del loro ruolo è funzionale alla storia, che procede rapida e lineare, fra stereotipi e gesta memorabili che non vogliono permettere allo spettatore di non scegliere da che parte stare. Anche quando a trionfare non è la giustizia, ma la legge del più forte.
Se questo è un "buono" (o ci è presentato come tale), come non parteggiare indiscutibilmente per lui? L'azione non manca, la suspence neppure. Giustamente famosissima la scena finale della stazione e della carrozzina.

venerdì 22 febbraio 2008

MYSTIC RIVER (Eastwood) 2003



Anni dopo la violenza sessuale inflitta da due pedofili a un ragazzino, avviene un'altra, più sanguinosa violenza che coinvolge due dei suoi coetanei di allora e tra intrecci di eventi si scorre tra la giustizia "di stato" e quella "personale".
Vengono affrontate tematiche morali difficili, in cui la sorte del destino individuale viene messa in discussione da situazioni eccezionali.


Ottima l'interpretazione sia dei tre protagonisti che delle loro mogli, allucinate nella sua crudeltà e follia il discorso finale dalla moglie di Jimmy (Sean Penn).

giovedì 21 febbraio 2008

Effetto Notte, Francois Truffaut (1973)



“La lavorazione di un film somiglia al percorso di una diligenza
nel far west: all'inizio spera di fare un bel viaggio,
poi comincia a domandarsi se arriverà mai a destinazione”.
Con questa emblematica frase Francois Truffaut introduce il suo tredicesimo lungometraggio, Effetto Notte. Un film di passione, di grande e incondizionato amore per il cinema.
Dove sono presenti numerose autocitazioni, ma anche richiami a maestri come Rossellini e Bunuel, a cui Truffaut strizza spesso l'occhio.

Nizza è il delizioso scenario di questo prodotto metacinematografico (è un film nel film), in cui il regista Ferrand, interpretato dallo stesso Truffaut, effettua le riprese di “Ti presento Pamela”, una storia d'amore e di vendetta tra una donna, un uomo e il padre di quest'ultimo.
Una serie di imprevisti, però, travolge e sconvolge cast e troupe. Sul set c'è chi si innamora perdutamente, chi soffre per gelosia, chi è terrorizzato dal futuro e chi – addirittura - muore.
Inevitabili le ripercussioni sull'andamento del film: la sceneggiatura viene modificata più e più volte. Diventando imprevedibile, proprio come la vita dei suoi attori.

Eppure passione per il cinema e fragilità umana sono due facce della stessa medaglia – pare suggerirci Truffaut – e il film riesce a giungere a compimento.
I numerosi "ciak" hanno scandito i ritmi di una famiglia, più che di un cast, che con la fine dei lavori è costretta a salutarsi.

"Mi raccomando, silenzio e precisione" è uno dei moniti dello scrupoloso regista, attento ai movimenti, alla scenografia, ai costumi e ad ogni elemento presente sul set.
Truffaut, come un abilissimo direttore d'orchestra di cui riconosce ogni singolo suono e strumento, sfrutta la voce fuori campo per plasmare una materia, la sua materia.


Un film raffinato e piacevolissimo.

sabato 16 febbraio 2008

Memorie d'una ragazza per bene - Simone de Beauvoir (1958)


Prima parte dell'autobiografia in 4 libri di S. de Beauvoir, dalla nascita – avvenuta "il 9 gennaio 1908, alle quattro del mattino, in una stanza dai mobili laccati in bianco che dava sul boulevard Raspail" - all'università Sorbona, dove incontra quello che sarà il compagno della vita: Jean-Paul Sartre. Scorrevole e lucidissimo racconto dell'educazione bigotta e piena di proibizioni - suddivisa rigidamente fra "ciò che sta bene" e "ciò che non sta bene" - e dello scontro con l'ambiente borghese e conservatore dal quale Simone si distacca in maniera crescente, man mano che cresce in lei consapevolezza e voglia di superare i valori tradizionali.


Il personaggio più complesso e problematico è tuttavia quello di Zazà, l'amica che accompagna Simone fin dall'adolescenza e sino alla piena maturità. Dapprima fondamentale punto di riferimento per S., che impara grazie a lei a vedersi in rapporto agli altri, ad aprire gli occhi sulla limitatezza dell'educazione ricevuta, Zazà è una figura lacerante, nel suo continuo sdoppiarsi fra una naturale tensione verso la spigliatezza e la derisione delle morali e delle formalità e la sottomissione ad una madre draconiana.



ANNI: 1908-1930



LUOGHI PRINCIPALI: Parigi – Chateauvillain



PERSONAGGI PRINCIPALI: Simone, i suoi genitori e la sorella, Jacques, Zazà






FRASI:


- la scrittura esige virtù scoraggianti, sforzi, pazienza; è un'attività solitaria in cui il pubblico esiste solo come speranza


- naturalmente, non le riconoscevo che "l'uguaglianza nella differenza", il che è un modo di affermare la propria preminenza


- una piccola larva che viveva in fondo allo stagno era preoccupata: una dopo l'altra le sue compagne si perdevano nella notte del firmamento acquatico: sarebbe scomparsa così anche lei? D'un tratto si ritrovò dall'altra parte delle tenebre: aveva le ali, volava, accarezzata dal sole, tra fiori meravigliosi


Certi libri – Dickens, Senza famiglia di Hector Malot – descrivevano esistenze molto dure; trovavo terribile la sorte dei minatori, affondati tutto il giorno nelle buie gallerie, alla mercé di un'esplosione di grisou. Ma mi dissero che i tempi erano cambiati. Gli operai adesso lavoravano molto meno e guadagnavano molto di più e poi, dopo la costituzione dei sindacati, i veri oppressi erano i padroni


- Ubriacati dal loro sapere libresco, ostinati nel loro orgoglio astratto e nelle loro vane pretese all'universalismo, costoro sacrificavano le realtà concrete – paese, razza, casta, famiglia, patria – alle fanfaluche per le quali la Francia e la civiltà stavano agonizzando: i Diritti dell'uomo, il pacifismo, l'internazionalismo,il socialismo


- Appena aprivo bocca, mi scoprivo e di nuovo venivo chiusa in quel mondo in cui ogni cosa ha inequivocabilmente il suo nome, il suo posto, la sua funzione, in cui l'odio e l'amore, il male e il bene sono altrettanto netti quanto il nero e il bianco, dove tutto è classificato, catalogato, conosciuto in anticipo, compreso e irrimediabilmente giudicato, quel mondo fornito di taglienti tenaglie, bagnato d'una luce implacabile, che non è mai sfiorata dall'ombra di un dubbio.

martedì 5 febbraio 2008

Lisbon story - W. Wenders (1995)


È un film di assenze. L'assenza improvvisa delle frontiere, che permette ai cittadini europei di viaggiare senza passaporto e a qualche illuso di sognare un mondo aperto ed uno spazio fluido in cui far transitare e coesistere persone ed idee. L'assenza del suono, evaporato nelle immagini mute di Lisbona e ricercato in ogni dove con un buffo microfono spione. L'assenza di un amore, annusato, atteso, ritrovato e nuovamente perso.
L'assenza di Friedrich, l'amico regista, che invita Phillip, tecnico del suono, a Lisbona per aiutarlo a finire un documentario sulla città e poi non si presenta mai a casa, dove sono alcuni bambini del quartiere a riempire il suo vuoto con telecamere insistenti. L'assenza dell'occhio umano nelle immagini non viste, riprese con una telecamera lasciata dietro alle spalle, per immortalare la città "così com'è e non come la desidero".
Le uniche immagini autentiche, secondo Friedrich, un vero patrimonio da tramandare ai posteri. Pura verità, puro documento. Niente a che vedere con il mercimonio del cinema, ormai molto più mezzo per fare quattrini che arte. A fare da sfondo, una Lisbona meravigliosa, che incanta con i suoi vicoli, i suoi scorci dalle terrazze, i suoi viali in pendenza percorsi dai tram.


È il centenario del cinema e Wenders vuole omaggiare il cinema europeo, contrapposto a quello americano ("Io sono europeo", dice Philip, fin da subito orgoglioso e felice dell'unità europea, inebriato del fatto che nessuno gli chieda il passaporto alla dogana) e la cultura portoghese, accompagnato dalla dolcissima voce della cantante dei Madredeus (che recitano in gruppo), inseguita, cercata dappertutto. Una voce che svetta per bellezza fra i mille suoni della città che Philip si ostina a registrare, nonostante l'apparente inutilità del suo lavoro.
Nonostante l'amico regista non si decida ad uscire dal guscio stretto e scomodo in cui si è ritirato, per via di un cinema dominante che si è fatto solo racconto di storie commerciali e non ha più niente della pura "visione". Equazione troppo semplice e per fortuna mai appesantita, in un film che è anche leggero ed ironico, in cui il solo monologo di Manoel de Oliveira – incentrato sull'inevitabile "menzogna" della memoria cinematografica, sull'impossibilità di intrappolare un momento "così com'è stato" - vale un lungo applauso.

sabato 2 febbraio 2008

Cous Cous - A. Kechiche (2007)


La vita può essere una corsa ostinata, drammatica, disperata. In fin dei conti, se si tiene presente come tutto è cominciato, nemmeno cercata. Ammesso – e non concesso – che una vita diversa si possa cercare, cosa in cui il meraviglioso Slimane (Habib Boufares), anche nei momenti più felici e circondato dall'affetto di tutti quelli – e sono tanti – che gli vogliono bene, tuttavia non sembra mai credere del tutto. Sarà per quell'espressione sempre compassata e un po' dimessa, da chi ne ha già viste (e sopportate..) troppe. L'ultima delle quali pare metterlo davvero Ko: dopo 35 anni di lavoro (di cui buona parte in nero), viene messo subdolamente da parte, in nome di una produttività che, in quanto anziano, non viene più ritenuto in grado di assicurare. Nascosta dietro ad un'imprevista e gravissima crisi che va affrontata col sacrificio di tutti.
La vita è uno scherzo stupido in un cortiletto rettangolare di periferia desolante, un gioco da ragazzi che si trasforma inesorabilmente in tragica angheria. La vita, per un anziano immigrato che, con l'aiuto caotico di tutta la sua famiglia allargata, cerca di ribellarsi ad una vigliacca esclusione dal mercato del lavoro e di ridivenire protagonista della propria vita, è disseminata di ostacoli e di diffidenza, di derisione e continue prove da fornire.
La vita è un esame continuo, una prova di resistenza che può diventare insostenibile. In cui l'ostinazione e la determinazione, in luogo di una ben più docile rassegnazione, possono anche risultar fatali.
Abdellatif Kechiche, come già in "Tutta colpa di Voltaire", ci fa lasciare la sala ancora una volta con l'amaro in bocca, (piacevolmente) privati del lieto fine. E quella corsa di Slimane, fra sbuffi, pause, ripartenze, abbandoni del corpo sulle ginocchia e nuovi scatti diventa all'istante metafora della sua vita, della rincorsa affannata e purtroppo vana verso un po' di giustizia, verso la serenità, verso uno scampolo di meritata soddisfazione personale.
Film lungo, forse anche un po' troppo, a tratti eccessivamente urlato, ma ricchissimo di spunti, di odori, colori e sapori.