giovedì 30 luglio 2009

Le mura di Malapaga - R. Clément (1949)


Jean Gabin e Isa Miranda in questo vecchio film b/n di René Clément, ambientato in una Genova poverissima e sporca del secondo dopoguerra.
Pierre è un fuggitivo francese che sta cercando di scappare alla polizia dopo aver commesso un omicidio. Nascosto in una nave, con un mal di denti che lo tortura, approfitta di una sosta a Genova per scendere, uscire dal porto ed andare alla ricerca di un dentista. Derubato e raggirato, si ritrova senza soldi e sul punto di andare a denunciarsi alla polizia. Il caso lo porterà invece a conoscere Marta, cameriera in un'osteria, e la figlia, perseguitate dal marito di lei che vuole rapire la bimba.
Le due donne vivono in un palazzo sovraffollato, assieme a decine di altre famiglie ancora sfollate per via dei bombardamenti e della miseria. Marta si offre comunque di ospitare in una soffitta Pierre che, a causa dei controlli, non riesce a rientrare nel porto dove è ancorata la "sua" nave.
Duro e disilluso lui, sola e desiderosa di un pò di serenità lei, Pierre e Marta finiscono per innamorarsi, facendo ingelosire la bambina, che deciderà così, di nascosto dalla madre, di aiutare Pierre a rientrare sulla nave. Riescono così ad aggirare i controlli al porto ma, quando arriva davanti al piroscafo, Pierre decide di non partire più.

Pare quasi l'inizio di una vita normalmente felice per questi due personaggi accomunati da solitudine, precarietà e disperazione.
Casualmente, però, la polizia italiana scopre che un "pericoloso omicida ricercato in Francia" si aggira indisturbato per le vie di Genova: comincia la caccia. La solidarietà dei vicini di Marta ed un geniale stratagemma inventato dalla bimba - che in realtà adorava Pierre - non riusciranno ad evitare all'omicida innamorato il finale più duro.

Bellissima ambientazione neorealistica, storia triste e un pò "strappalacrime", resa comunque più che gradevole dalla credibilità dei personaggi e dalla bravura degli attori. Pierre è un vero "duro" romantico, apparentemente cinico ed indifferente a tutto, ma in realtà capace di grandi gesti d'amore. E proprio l'amore, oltre che la città (splendide viste d'insieme e toccanti inquadrature nei vicoletti) è il vero protagonista del film: l'amore che è medicina alla tristezza ed antidoto alla solitudine, l'amore che è più forte di ogni passato, l'amore che fa gioire, ma anche - terribilmente - soffrire.

Premio per la migliore regia e l'interpretazione femminile a Cannes e Oscar come miglior film straniero.


"Non parto più"
"Ah in fondo si vive bene anche qui"
"Forse"
"Hai trovato una bella donna eh?"
"Una e me
zza"


lunedì 27 luglio 2009

Les diaboliques - H.G. Clouzot (1954)

Superbo giallo ad alta tensione da uno dei maestri del genere. Film di rumori ed ombre in cui tutto quello che è importante non si vede, ma si sente. Oppure si dice, ma non si tiene in considerazione.
Clouzot è grande nel far crescere la tensione, nel disseminare indizi che lentamente, inesorabilmente, portano al climax finale. I suoi personaggi sono sempre credibili, i particolari estremamente importanti.

La ricca e debole moglie del direttore di un istituto privato per ragazzini (di cui lei è proprietaria) viene convinta dall'amante di lui - nonché insegnante allo stesso collegio - ad uccidere l'uomo, violento e malvagio. La moglie esita, nonostante l'uomo non faccia altro che maltrattarla, soprattutto in pubblico. Infine, disperata, si convince, grazie soprattutto al supporto morale ed al decisionismo della sua rivale, anche lei stanca delle angherie subite.
Attirato l'uomo in una trappola lo annegano in una vasca da bango e, rientrate al collegio di notte, lo gettano nella piscina dell'istituto, dove il cadavere affonda nell'acqua torbida e ricoperta da uno strato di foglie autunnali.
Ma i giorni passano ed il corpo non torna a galla. Si fa svuotare la piscina con una scusa: nessuna traccia!
Fra presunti ritrovamenti, avvistamenti misteriosi da parte di un bambino, comparsate "dall'aldilà", la tensione monta e le donne - come sfidate da questo fantasma che pare perseguitarle - cominciano ad entrare in crisi. Soprattutto Cristina, la moglie, è sempre più pentita del gesto compiuto ed il suo cuore, già malato, accusa il colpo. Nicole, invece, perde la spavalderia delle prime battute e, piano piano, comincia a tirarsi indietro, fino a fuggire, lasciando la sola Cristina davanti all'incomprensibile tragedia.

Tutto si chiarisce nei vibranti colpi di scena finali, con un vecchio ed annoiato detective in pensione che si intromette...

domenica 26 luglio 2009

Alle cinque della sera - S.Makhmalbaf (2003)


Kabul, dopo i bombardamenti e l'attacco americano in seguito all'11/9, le truppe NATO invadono il Paese per “stabilizzarlo”, per rendere definitiva la cacciata dal potere dei taleban ed avviare la “democrazia”. Questo almeno veniva ripetuto dalla propaganda dei Paesi occidentali per legittimare la guerra. Oggi, nel 2009, assistiamo ad una recrudescenza degli scontri, ad un aumento degli sforzi militari dell'alleanza occidentale e delle vittime e delle sofferenze dei civili (peraltro mai cessate in tutti questi anni). Il governo dell'Afghanistan è ancora ben lontano dal potersi dire una democrazia (nonostante le prossime elezioni in arrivo), le condizioni di vita sono ancora terribili, i profughi afgani non cessano di aumentare anno dopo anno e i taleban paiono decisamente rafforzati. I numerosi “errori” nei bombardamenti e le continue sofferenze della popolazione, stanca di decenni di guerre, finiscono inevitabilmente per aumentare la simpatia nei loro confronti.


Il terzo film della figlia del celebre Mohsen (co-sceneggiatore, assieme alla stessa Samira) racconta una piccola storia molto semplice. Noqreh è una giovane donna afgana che frequenta la scuola di nascosto dal padre, fanatico religioso e retrogrado. Ha nel cassetto un sogno piuttosto ambizioso: diventare la prima presidente donna dell'Afghanistan. Cerca di parlare con la gente, di informarsi su quanto succede negli altri Paesi, di trovare e studiare i discorsi dei politici più famosi, si fa fare – grazie alla collaborazione di un poeta suo amico – un servizio fotografico in vista della campagna elettorale. Le ambizioni della donna si scontrano con la realtà. Cacciati di casa dall'arrivo di una massa di sfollati, Noqreh, il padre e la moglie del fratello di Noqreh (morto in un incidente stradale) lasciano Kabul e vagano alla ricerca di un riparo. Per loro tre e soprattutto per il piccolissimo bambino della cognata di Noqreh. Il viaggio – che per il vecchio padre significa anche la ricerca di un posto meno blasfemo della Kabul contemporanea (dove sembra “che Dio non esista più” e le donne girano ormai a volto scoperto, senza paura di farsi guardare dagli uomini) – sarà una fatica ed una sofferenza continua.

E proprio questo della fatica di vivere in quelle condizioni, dalla pena di dover continuamente ammazzarsi per trovare cibo e acqua, pare essere il filo rosso che accomuna tutti i personaggi del film. Allora la religione – il fanatismo – pare essere l'unica risposta. L'affidamento totale ad un Dio onnipotente e la richiesta continua di perdono per i propri peccati finiscono però per rappresentare solo un ulteriore freno ad un miglioramento delle condizioni di vita terrena. In una sorta di circolo vizioso, miseria, ignoranza, fanatismo ed oscurantismo si rinforzano a vicenda, imprigionando un paese intero e impedendo di fatto ogni sua crescita.

Nelle donne e nei poeti – certo non nei violenti bombardamenti e nelle invasioni militari – questo film individua forse un'ultima, certo allo stato attuale debolissima, speranza di rinascita.


Lavoro con luci ed ombre. Le prime: regia, fotografia, interpretazioni, e l'idea di parlare – dal punto di vista di una donna – dell'Afghanistan “liberato” dalle forze NATO. Alcune inquadrature davvero emozionano per la loro dura bellezza: le rovine di Kabul tra cui si muovono le figure azzurre dei disumanizzanti burqa, le gelide montagne, gli spostamenti su un carretto o in bicicletta, unici mezzi di locomozione da cui i fortunati proprietari traggono il proprio sostentamento o la propria libertà.

Le ombre: i dialoghi, una certa semplicità nella scrittura, la palese volontà di dimostrare una tesi. In poche parole, Alle cinque della sera è un film che “parla” troppo. Un film in cui alcune battute messe in bocca agli attori risultano poco credibili, forzate, didascaliche. In certi punti (soprattutto nella prima parte, quella della scuola), pare di assistere ad una lezione sulla condizione della donna nel mondo islamico. Lezione che, liquidata in 3-4 battute di studentesse, rischia davvero di rimanere un po' superficiale ed infastidire lo spettatore. Ma non è questo l'unico caso in cui gli scrittori si mettono sulla cattedra e strumentalizzano i personaggi in maniera troppo palese: in diversi momenti, durante la proiezione, si prova questa sensazione.


Sulla condizione di smarrimento dell'Afganistan e dei suoi abitanti è emblematico l'incontro finale: al bordo di una mulattiera sta seduto un vecchio partito 4 mesi prima per raggiungere Kandahar, dove il Consiglio dei Saggi doveva riunirsi per decidere se consegnare Osama Bin Laden agli americani o meno. Ma la strada è molto lunga, l'asino ormai moribondo ed il vecchio pure. Il padre di Naqreh gli spiega che, mentre lui era in cammino gli americani hanno cominciato a bombardare l'Afghanistan e le forze NATO hanno occupato il Paese. Il regime, odioso, dei talebani è caduto. Ma il popolo afgano, lacerato ed immiserito da decenni di guerre, violazioni dei diritti, lotte interne, ignoranza, fame, avanza a tentoni, ormai senza forze, alla ricerca della sua strada.


“Alle cinque della sera” è il famoso verso della poesia Il cozzo e la morte di Garcia Lorca, che l'amico poeta regala a Naqreh.

Premio della Giuria al Festival di Cannes 2003.