domenica 23 dicembre 2007

Palle di Natale - ovvero "Che fine ha fatto...il dibattito?"


Il problema, tra l'altro, è che il livello del dibattito non è mai stato così basso. L'ideologia - per dirla con Bauman - della privatizzazione, che prevede che a partecipare alla vita (e alla profusione di lavoro e impegno) siano solo individui, privati, ognuno intento a curare bene solo il suo, porta rapidamente alla conclusione speculare. Che chi "pensa in comune", chi crede che tra sè (la sua famiglia, etc..) e lo Stato (inteso come apparato pubblico, centro del potere economico e politico) vi sia per forza qualcos'altro - che può assumere plurime denominazioni, ma è genericamente riconducibile al termine "società", o "collettività" -, chi ritiene dunque indispensabile non lasciare solo allo Stato o agli individui privatizzati il compito (e il diritto) di decidere delle sorti di tutti, ecco che - come minimo - tutti gli daremo (se va bene) dell'idealista, quando non (se proprio esagera) del fesso.


C'è anche chi crede di doversi rifugiare nel menefreghismo, nel rifiuto del tentativo di approfondire e comprendere i problemi, nelle reazioni "di pancia". Sono ad esempio i sostenitori del "tanto sono tutti uguali" o del "è normale che sia così", o ancora "la sicurezza non è nè di destra nè di sinistra".
Costoro sono forse i più "progrediti", se teniamo per buono il postulato baumaniano di partenza per cui la società odierna è sempre più pervasa dall'ideologia della privatizzazione. Cioè, per questa categoria di persone (purtroppo in forte crescita) la risposta alle problematiche può essere solo individuale, privata, mentre la frapposizione di una struttura intermedia, che magari aggreghi le forze e le intenzioni di chi si sforza di pensare ed agire "in comune" è vista solo come una perdita di tempo, un'inutile e maldestra difesa assistenzialistica di chi non è capace di fare, di stare al passo e deve ricorrere al (disprezzatissimo) appoggio altrui. I rapporti tra le forze (anche se macroscopicamente sproporzionati, es. lo Stato ed il suddito, il lavoratore e la grande multinazionale) sono per questa categoria di persone frutto esclusivo di un semplice (e neutro) contratto, valutabile perciò in termini numerici ed economici, ed in quanto tale non sindacabile da un punto di vista di correttezza giuridica nè tantomeno etica (parola anzi aborrita, rifiutata, derisa).

Ecco le prime vittime dello "spezzatino" sociale in cui ci siamo cacciati. Ecco i risultati di quella che il Censis ha da poco definito una vera e propria "poltiglia sociale". Ognun per sè e si salvi chi può (ma tutti un pò più soli).

Quello che manca - in buona sostanza - è un senso comune. Oppure - ed è ancor più grave - uno scopo comune. Il gran proliferare, sui media di massa così come all'interno dei milioni di blog sparsi in rete, di racconti personali, di storie singole è una dimostrazione di ciò. "Oggi ho fatto un colloquio di lavoro"; "Ieri mi sono ubriacato"; "Il superiore mi ha trattato male"; "Ho prurito al naso e un fastidioso senso di affaticamento".
Perchè tante persone si sentono in dovere di condividere con perfetti sconosciuti momenti particolari, precisi, temporaneamente limitati, effimeri e passeggeri della propria vita?
Non c'è mai niente dopo? Non c'è mai stato niente prima?
I rapporti personali - fra amici o sconosciuti, ad esempio tramite internet - stanno cominciando a ricalcare sempre di più lo schema dei telegiornali. Una notizia flash ("oggi ho comprato le scarpe nuove"), i commenti ("che belle", "non mi piacciono", "sono molto di moda"), le repliche/giustificazioni/scuse ("le ho pagate un sacco di soldi", "le ho viste addosso a..."). Dopodichè finisce tutto, si volta pagina. Tutt'al più, se l'evento è di quelli che si ricordano (una festa particolarmente divertente, una vacanza), ci si potrà tornare sopra più avanti, con la stessa immodificabile leggerezza.
E il resto? Tutto quello che succede nel mondo (nel nostro mondo), tutto quello che investe un livello "pubblico", le circostanze che non riguardano solo l'oratore di turno (ed il suo portafogli o la sua vanità) non interessano, anzi spesso nemmeno si sanno. Il dibattito attuale prevede che si enuncino come Verbo tutta una serie di banalità e si nasconda dietro un atteggiamento di distacco ("è normale che le cose funzionino così...") un vertiginoso e reale vuoto di - innanzitutto - domande. Un terrificante vuoto di domande, di concetti, di (voglia di) approfondimento, nonostante questo sterminato flusso di informazioni che - soprattutto grazie alla rete - è oggi alla portata di quasi tutti. Ma ognuno, ahinoi, preferisce parlare e leggere di sè.

La mia generazione è partita fortunata. Siamo nati e cresciuti senza aver mai pensato a parole come guerre, torture, violazioni di diritti, sopraffazione dell'uomo sull'altro uomo, se non come ricollegabili a mondi lontani (e "arretrati", "barbari", "sottosviluppati"). Per anni, nel dibattito pubblico - purtroppo condotto essenzialmente in televisione, visto che la gran parte degli italiani è solo da questa che trae informazioni - parole e concetti come razzismo, depressione, sfruttamento, sottomissione della donna, solitudine, sono state sistematicamente evitate o addirittura respinte come dequalificanti per un modello di vita che si ritiene (riteneva?) infallibile.
Oggi le cose sembra stiano leggermente cambiando. E bisogna fare attenzione perchè, continuando a "privatizzarci", a ragionare ciascuno per sè, a girare le spalle davanti ai problemi-degli-altri (che in quanto tali non ci interessano) il rischio molto concreto è che, nel giro di alcuni anni, il mondo (il nostro mondo, non uno lontano) sia un posto meno accogliente, dove sono state dimenticate molte delle conquiste - che oggi, sbagliando, diamo per scontate - che nel '900 hanno segnato la vita e l'attività (ma sì!) politica di tante persone, unite da molte di quelle cause comuni che oggi sembrano suscitare più disprezzo e derisione che partecipazione.
Le generazioni future partono già meno fortunate della nostra.


Consiglio del giorno: America Oggi (R. Altman, 1993)

Di Zygmunt Bauman: La società dell'incertezza (1999); La società individualizzata (2001)

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