L'amore e basta di Consiglio è una serie di 9 interviste ad altrettante coppie (o famiglie, a seconda della definizione che gli intervistati preferiscono darsi) omosessuali, in Italia e all'estero. Con un prologo, la lettura di un brano di Aldo Nove da parte di L. Zingaretti. Ed una serie di brevi intervalli a fumetti.
E' dunque un documentario, o meglio un documento, in cui tutto è incentrato sulle voci, i volti, i movimenti, insomma sulla normalità dei protagonisti. Che, privi di campo alle spalle - davanti a semplici muri o finestre o prati - si raccontano e rispondono alle domande del regista. E' un documento sull'amore e su come queste 9 coppie vivono la loro storia d'amore. Non è, non vuole essere una denuncia, nè un confronto sulle diverse legislazioni nei vari Paesi europei (anche se la coppia spagnola è felice della sua "regolarità"), nè una presa di posizione politica sugli aspetti più delicati, dall'adozione al matrimonio fra persone dello stesso sesso. Anzi, il lavoro di Consiglio mantiene sempre un atteggiamento molto prudente, attento a sottolineare le diverse sfaccettature ed a fare emergere vari e contrapposti punti di vista su ogni argomento.
E questo, che avrebbe potuto finire per far perdere un pò di vigore al documento, restituisce invece per una volta un'immagine molto meno "monolitica" del cosiddetto mondo omossessuale, all'interno del quale - come è ovvio e normale, ma generalmente dimenticato - convivono persone, piccole-grandi persone, ciascuna con le sue idee, difficoltà e pregi.
Le - sacrosante - battaglie aspre per la conquista di diritti civili (o, nella triste attualità italiana, per il semplice diritto all'esistenza) sono qui lasciate in secondo piano per entrare molto più nel privato di queste coppie/famiglie, non a caso intervistate tutte in ambienti domestici o comunque familiari. L'amore e basta è un lavoro delicato e profondo che, proprio per questo suo non cercare la sensazione, probabilmente non riceverà i favori del pubblico e della distribuzione. Ma sarebbe da mostrare nelle scuole, ai ragazzini, affinchè s'abituino a vedere le persone, ad ascoltare e capire la complessità e l'individualità di ciascuno, prima di (ispirandoci ad Aldo Nove) imparare le parole e le categorie generalizzanti, le allusioni offensive, che preparano il campo alla vergogna, all'isolamento, all'emarginazione, al rifiuto.
Presentato a Venezia 2009
giovedì 17 settembre 2009
sabato 5 settembre 2009
La paura - P. Delbono (2009)
Girato interamente con un telefono cellulare, questo film di Delbono si fa ammirare più che altro - oltre che per la "novità" - per il tentativo di donare serietà ad un mezzo generalmente considerato frivolo ed utilizzato per catturare immagini superficiali, buone giusto per farsi due risate con gli amici quando si riguardano.
Delbono riprende dunque scene di vita vera, che accadono davanti ai suoi occhi o nel "magico" schermo televisivo, dove il tossico da tubo catodico può trovare davvero di tutto, dai consigli su come far dimagrire i propri bambini obesi, alle storie strappalacrime dei cani e dei loro padroni, al più semplice, sguaiato e becero divertimento.
E' da lì, da quello strumento di omologazione, controllo sociale e rimbambimento collettivo che la stragrande maggioranza della popolazione italiana trae le sue "informazioni" ed orienta (eterodiretta) i propri comportamenti. Mentre fuori, la realtà "vera" ci parla di ben altro: dai funerali per il ragazzo di colore di nome Abdul ucciso per aver rubato una scatola di biscotti, disertati da autorità e forze (anche) di sinistra, a campi dove i rom vengono tenuti a marcire e fare una vita da cani. Il telefonino di Delbono si sofferma su queste storie, con il chiaro intento di provocare, di stimolare una reazione, che già sappiamo che non ci sarà. Tutti troppo abituati a rinchiudersi in casa, ad alimentare la propria paura ed il proprio spegnimento del cervello con il prossimo, idiota, varietà. E a chi vuole sapere, a chi si indigna, non rimane altro che una profonda frustrazione, un senso di impotenza, di incapacità di comunicare con gli altri, se non urlando invettive, per sfogarsi.
Se l'idea e le intenzioni erano ottime, il risutato tuttavia non lo è altrettanto. Certi momenti sono davvero di una pesantezza mortale, da "sperimentalismo", che non c'entra poi granchè con quello che avrebbe potuto essere un originale film di denuncia. E poi pare un pò troppo semplicistico accostare sic et simpliciter l'estrema superficialità (la non voglia di ragionare) contemporanea e le tragedie umane che la circondano. Ciò che emerge è un sistema, una società del tutto priva di speranze, in cui fra questi due mondi è impossibile comunicare, se non in maniera violenta, di pancia. E dove i "beati" sono i sordi e folli, che hanno passato 40 anni in un manicomio, come Bobo, che può non sentire e conservare, così, una purezza che nel mondo non esiste più.
Una risposta un pò troppo semplice. Da telefonino.
Presentato a Locarno
Delbono riprende dunque scene di vita vera, che accadono davanti ai suoi occhi o nel "magico" schermo televisivo, dove il tossico da tubo catodico può trovare davvero di tutto, dai consigli su come far dimagrire i propri bambini obesi, alle storie strappalacrime dei cani e dei loro padroni, al più semplice, sguaiato e becero divertimento.
E' da lì, da quello strumento di omologazione, controllo sociale e rimbambimento collettivo che la stragrande maggioranza della popolazione italiana trae le sue "informazioni" ed orienta (eterodiretta) i propri comportamenti. Mentre fuori, la realtà "vera" ci parla di ben altro: dai funerali per il ragazzo di colore di nome Abdul ucciso per aver rubato una scatola di biscotti, disertati da autorità e forze (anche) di sinistra, a campi dove i rom vengono tenuti a marcire e fare una vita da cani. Il telefonino di Delbono si sofferma su queste storie, con il chiaro intento di provocare, di stimolare una reazione, che già sappiamo che non ci sarà. Tutti troppo abituati a rinchiudersi in casa, ad alimentare la propria paura ed il proprio spegnimento del cervello con il prossimo, idiota, varietà. E a chi vuole sapere, a chi si indigna, non rimane altro che una profonda frustrazione, un senso di impotenza, di incapacità di comunicare con gli altri, se non urlando invettive, per sfogarsi.
Se l'idea e le intenzioni erano ottime, il risutato tuttavia non lo è altrettanto. Certi momenti sono davvero di una pesantezza mortale, da "sperimentalismo", che non c'entra poi granchè con quello che avrebbe potuto essere un originale film di denuncia. E poi pare un pò troppo semplicistico accostare sic et simpliciter l'estrema superficialità (la non voglia di ragionare) contemporanea e le tragedie umane che la circondano. Ciò che emerge è un sistema, una società del tutto priva di speranze, in cui fra questi due mondi è impossibile comunicare, se non in maniera violenta, di pancia. E dove i "beati" sono i sordi e folli, che hanno passato 40 anni in un manicomio, come Bobo, che può non sentire e conservare, così, una purezza che nel mondo non esiste più.
Una risposta un pò troppo semplice. Da telefonino.
Presentato a Locarno
Piazzati - G. Diritti (2009)
Dopo il successo de Il vento fa il suo giro - ed in attesa de L'uomo che verrà, ormai di prossima uscita - Diritti presenta questo documentario di un'ora scarsa ambientato ancora nelle valli occitane. La storia è una di quelle assolutamente escluse dal dibattito pubblico, dimenticate. Sarà per la riservatezza tipicamente "montanara", o forse per quella tendenza tipicamente italiana a rimuovere tutto ciò che appartiene al nostro (recente!) passato di popolo di miseri emigranti, soprattutto molto miseri.
Protagonisti sono una serie di anziani, ma lucidi, uomini e donne che raccontano davanti alla mdp il loro trascorso da bambini "in affitto", quando - per alleviare la famiglia (che così doveva sfamare una bocca in meno) ed avere la certezza di un pasto caldo o di qualche piccolo regalo - si trasferivano a lavorare nelle ricche valli francese, subito al di là del confine. Badare le vacche, raccogliere il grano, aiutare nelle faccende domestiche. Bambini e bambine addirittura venivano offerti dai genitori in occasione di una fiera in cui le famiglie francesi venivano e si sceglievano chi più li aggradava, per poi procedere all'affitto. In altri casi, si doveva attraversare clandestinamente il confine e cercare lavoro direttamente sul posto. Perchè nelle confinanti valli francesi il lavoro non mancava e, come è normale, chi "di qua" non aveva di che vivere, cercava di andare "di là", anche a costo di grandi sacrifici e di una vita di stenti. Dice Diritti che sulla cima di un monte al confine fra Italia e Francia una lapide ricorda alcuni bambini morti- sorpresi da una nevicata fuori stagione - durante lo sconfinamento.
Tanti i temi che emergono dal documentario: il senso del sacrificio per sè e la propria famiglia, la sofferenza della decisione di allontanarsi dai propri cari. Inevitabile il paragone con l'oggi, quando sono le campagne italiane ad attirare masse di giovani poveri che vengono da un "altrove". E quando si fa tutto un gran parlare di famiglia, confondendo però l'amore per i propri cari (ed i sacrifici che ne derivano) con il rispetto di insulse regole religiose. Come al solito, la sostanza con l'apparenza. Diritti restituisce un pò di giustizia alla prima.
mercoledì 2 settembre 2009
Ogro - G. Pontecorvo (1979)
Durante la dittatura franchista l'ETA decise (nel 1973) di eliminare Luis Carrero Blanco, consigliere di Franco e poi capo del governo su nomina del "Caudillo" negli ultimi anni della dittatura.
Incaricati dell'attentato 4 militanti baschi che, trasferitisi a Madrid da Bilbao, organizzano un piano particolareggiato che prevedeva, all'inizio, il rapimento dell'alto funzionario, ma che si è dovuto trasformare poi in omicidio dopo la nomina a capo del governo di Blanco e conseguente aumento delle misure di sicurezza intorno alla sua persona. Dopo mesi di discussioni fra i 4 ed una preparazione faticosa, l'attentato avrà luogo e raggiungerà il suo scopo.
Dopo la caduta del regime e la (lunga) transizione democratica spagnola, scoppiarono le divisioni all'interno dell'ETA fra chi voleva l'abbandono della lotta armata a vantaggio di una partecipazione alla vita democratica, secondo le regole di questa, e chi, del tutto sfiduciato, continuava (e continua ancora) a credere nella violenza e negli attentati come unica soluzione. Anche nel piccolo gruppo protagonista di questo film si sviluppano queste dinamiche e le strade degli amici e compagni inseparabili, invevitabilmente, finiscono per dividersi in maniera lacerante.
Ogro è un film che ha avuto, per ammissione stessa di chi ci ha lavorato e del regista, una gestazione particolarmente complicata, durata circa 4 anni. Questo non solo per le incertezze di Pontecorvo e per il particolare periodo storico (coincidente fra l'altro con il rapimento Moro), ma anche per il fatto che si partiva da un libro contenente interviste agli autori dell'omicidio.
Dunque, il rischio avvertito dagli autori era quello di schierarsi troppo nettamente dalla parte dell'ETA, con le ovvie conseguenze in termini di credibilità del film e successiva distribuzione della pellicola. Ciò che ne risulta, dunque, è un lavoro un pò "ingessato", che alterna momenti di azione e grande tensione (come i minuti precedenti l'attentato) a dialoghi che a tratti appaiono davvero inseriti a forza, didascalici. Finalizzati in sostanza a sottolineare la posizione del regista, che è poi quella impersonata da G.M. Volontè, organizzatore del piano. Cioè a dire, la posizione che ritiene la violenza come estremo mezzo per liberarsi da una dittatura, ma assolutamente da limitare anche in quelle occasioni e poi da accantonare una volta ottenuta la liberazione. C'è chi, da parte basca, ha accusato per questo Pontecorvo di ambiguità.
Tutto sommato, Ogro è comunque ben diretto, la storia è messa in scena in maniera (a tratti) avvincente ed è comunque interessante il tentativo di Pontecorvo di dare sempre voce agli "altri", anche quando isolati ed incomprensibili. I dialoghi, per quanto come detto un pò "da manuale", contengono anche spunti interessanti, non tanto quando provengono da Izarra (Volonté), sorta di "terrorista-accettabile", comprensibile, ragionevole, quanto da Txabi, il compagno intransigente, problematico, con una compagna (ed una figlia), ma che sacrifica tutto, anche se stesso, alla causa che vede come unica strada percorribile: quella del "tutto e subito". Perchè non tutti riescono a vederla come Izarra, che sottolinea invece il valore della pazienza e del testardo lavoro di convincimento quotidiano delle masse. Per Txabi ciò non è possibile: preso dalla sua angoscia di raggiungere l'obiettivo, finisce per vedere davanti a sè un muro enorme, fatto del potere ma anche - ciò che è peggio - dall'indifferenza della gente che non si cura di quello che capita attorno alla propria piccola vita, fatta di lavoro e domeniche allo stadio. E chissenefrega della mancanza di libertà, chissenefrega dei prigionieri politici, chissenefrega anche dell'ETA.
Tutto questo a Txabi non va giù. E, anche se deciderà di stare fino all'ultimo assieme ai suoi compagni, di portare a termine la missione, ciò che verrà dopo lo farà restare solo, tra i suoi fantasmi di rivoluzioni fallite e traditori.
T: Pensavo a dopo ancora
I: A dopo quando?
T: A quando cadrà il fascismo, perchè dovrà pure cadere prima o poi! Ma la gente? Cambierà la gente, dopo?
I: Pensa un pò a tutti quelli che hanno pensato che la loro rivoluzione fosse l'ultima...Certo che cambierà. Lentamente, ma cambierà.
Incaricati dell'attentato 4 militanti baschi che, trasferitisi a Madrid da Bilbao, organizzano un piano particolareggiato che prevedeva, all'inizio, il rapimento dell'alto funzionario, ma che si è dovuto trasformare poi in omicidio dopo la nomina a capo del governo di Blanco e conseguente aumento delle misure di sicurezza intorno alla sua persona. Dopo mesi di discussioni fra i 4 ed una preparazione faticosa, l'attentato avrà luogo e raggiungerà il suo scopo.
Dopo la caduta del regime e la (lunga) transizione democratica spagnola, scoppiarono le divisioni all'interno dell'ETA fra chi voleva l'abbandono della lotta armata a vantaggio di una partecipazione alla vita democratica, secondo le regole di questa, e chi, del tutto sfiduciato, continuava (e continua ancora) a credere nella violenza e negli attentati come unica soluzione. Anche nel piccolo gruppo protagonista di questo film si sviluppano queste dinamiche e le strade degli amici e compagni inseparabili, invevitabilmente, finiscono per dividersi in maniera lacerante.
Ogro è un film che ha avuto, per ammissione stessa di chi ci ha lavorato e del regista, una gestazione particolarmente complicata, durata circa 4 anni. Questo non solo per le incertezze di Pontecorvo e per il particolare periodo storico (coincidente fra l'altro con il rapimento Moro), ma anche per il fatto che si partiva da un libro contenente interviste agli autori dell'omicidio.
Dunque, il rischio avvertito dagli autori era quello di schierarsi troppo nettamente dalla parte dell'ETA, con le ovvie conseguenze in termini di credibilità del film e successiva distribuzione della pellicola. Ciò che ne risulta, dunque, è un lavoro un pò "ingessato", che alterna momenti di azione e grande tensione (come i minuti precedenti l'attentato) a dialoghi che a tratti appaiono davvero inseriti a forza, didascalici. Finalizzati in sostanza a sottolineare la posizione del regista, che è poi quella impersonata da G.M. Volontè, organizzatore del piano. Cioè a dire, la posizione che ritiene la violenza come estremo mezzo per liberarsi da una dittatura, ma assolutamente da limitare anche in quelle occasioni e poi da accantonare una volta ottenuta la liberazione. C'è chi, da parte basca, ha accusato per questo Pontecorvo di ambiguità.
Tutto sommato, Ogro è comunque ben diretto, la storia è messa in scena in maniera (a tratti) avvincente ed è comunque interessante il tentativo di Pontecorvo di dare sempre voce agli "altri", anche quando isolati ed incomprensibili. I dialoghi, per quanto come detto un pò "da manuale", contengono anche spunti interessanti, non tanto quando provengono da Izarra (Volonté), sorta di "terrorista-accettabile", comprensibile, ragionevole, quanto da Txabi, il compagno intransigente, problematico, con una compagna (ed una figlia), ma che sacrifica tutto, anche se stesso, alla causa che vede come unica strada percorribile: quella del "tutto e subito". Perchè non tutti riescono a vederla come Izarra, che sottolinea invece il valore della pazienza e del testardo lavoro di convincimento quotidiano delle masse. Per Txabi ciò non è possibile: preso dalla sua angoscia di raggiungere l'obiettivo, finisce per vedere davanti a sè un muro enorme, fatto del potere ma anche - ciò che è peggio - dall'indifferenza della gente che non si cura di quello che capita attorno alla propria piccola vita, fatta di lavoro e domeniche allo stadio. E chissenefrega della mancanza di libertà, chissenefrega dei prigionieri politici, chissenefrega anche dell'ETA.
Tutto questo a Txabi non va giù. E, anche se deciderà di stare fino all'ultimo assieme ai suoi compagni, di portare a termine la missione, ciò che verrà dopo lo farà restare solo, tra i suoi fantasmi di rivoluzioni fallite e traditori.
T: Pensavo a dopo ancora
I: A dopo quando?
T: A quando cadrà il fascismo, perchè dovrà pure cadere prima o poi! Ma la gente? Cambierà la gente, dopo?
I: Pensa un pò a tutti quelli che hanno pensato che la loro rivoluzione fosse l'ultima...Certo che cambierà. Lentamente, ma cambierà.
Bon voyage - J.P. Rappeneau (2003)
Francia, Parigi, 1940. L'occupazione dei tedeschi avanza ed il governo intero, assieme alla popolazione, deve scappare dalla capitale e rifugiarsi a Bordeaux. Qui, viene deciso di affidare il comando del governo al maresciallo Pétain. La Francia sarà spaccata in due: il nord invaso dai nazisti; la Repubblica di Vichy a Sud. Spinti dall'avanzata tedesca- che appare davvero inarrestabile - e dalla voglia di tornare alla normalità della popolazione, abituata agli agi e non certo alla vita da perenni sfollati, i ministri sceglieranno la via dell'armistizio con i tedeschi ed il nuovo governo di Vichy collaborerà con la Germania di Hitler. Il generale De Gaulle, nel frattempo, riuscirà a riparare a Londra, da dove organizzerà la resistenza.
Su queste basi storiche ben note si innestano le storie dei protagonisti di questo film. Frédéric, aspirante scrittore, innamorato di una giovane e bella attrice, Viviane. Imprigionato a causa di un omicidio commesso da lei, Frédéric evaderà di prigione proprio durante l'occupazione di Parigi. Viviane intanto alloggia come tutti all'Hotel Splendid di Bordeaux, ma riesce sempre a garantirsi alcuni privilegi grazie all'amore che prova nei suoi confronti il ministro dell'Interno (G. Depardieu), a cui lei si aggrappa - come pare disposta ad aggrapparsi a tutti i potenti di turno - pur di mantenere la sua reputazione di artista affermata.
Nello stesso hotel, trasformato in vero e proprio rifugio, si trovano anche una spia dei tedeschi travestito da giornalista sulle tracce di Viviane, un ladruncolo simpatico e in gamba che era evaso di prigione assieme a Frédéric, Camille, assistente onesta e seria di un professore universitario in possesso di un certo quantitativo di acqua pesante, in grado di servire alla fabbricazione di un ordigno nucleare e dunque da preservare a tutti i costi dalle brame dei tedeschi. Con la sua caparbietà e l'aiuto decisivo di Frédéric, la giovane Camille riuscirà a far imbarcare il professore ed il suo carico alla volta dell'Inghilterra. E a vincere lentamente anche l'affetto di Frédéric, che riuscirà a togliersi di dosso l'ingombrante ed accecante figura di Viviane.
Trama intricata e ritmo sostenuto per questo lavoro di Rappeneau, con le vicende personali ed amorose dei protagonisti - che si rincorrono, si perdono, si rirovano casualmente - che si incrociano e crescono con l'evolversi della stoira e, infine, ne decidono le sorti.
Al di là del contesto storico, comunque, ciò che più piace di Bon Voyage è proprio il riuscitissimo approfondimento psicologico dei personaggi, credibili, mai macchiette, pieni di sfaccettature, in grado di imprimere cambi di rotta alla propria vita e, soprattutto, di crescere e mutare nel corso del tempo.
Film curato e piacevole.
Su queste basi storiche ben note si innestano le storie dei protagonisti di questo film. Frédéric, aspirante scrittore, innamorato di una giovane e bella attrice, Viviane. Imprigionato a causa di un omicidio commesso da lei, Frédéric evaderà di prigione proprio durante l'occupazione di Parigi. Viviane intanto alloggia come tutti all'Hotel Splendid di Bordeaux, ma riesce sempre a garantirsi alcuni privilegi grazie all'amore che prova nei suoi confronti il ministro dell'Interno (G. Depardieu), a cui lei si aggrappa - come pare disposta ad aggrapparsi a tutti i potenti di turno - pur di mantenere la sua reputazione di artista affermata.
Nello stesso hotel, trasformato in vero e proprio rifugio, si trovano anche una spia dei tedeschi travestito da giornalista sulle tracce di Viviane, un ladruncolo simpatico e in gamba che era evaso di prigione assieme a Frédéric, Camille, assistente onesta e seria di un professore universitario in possesso di un certo quantitativo di acqua pesante, in grado di servire alla fabbricazione di un ordigno nucleare e dunque da preservare a tutti i costi dalle brame dei tedeschi. Con la sua caparbietà e l'aiuto decisivo di Frédéric, la giovane Camille riuscirà a far imbarcare il professore ed il suo carico alla volta dell'Inghilterra. E a vincere lentamente anche l'affetto di Frédéric, che riuscirà a togliersi di dosso l'ingombrante ed accecante figura di Viviane.
Trama intricata e ritmo sostenuto per questo lavoro di Rappeneau, con le vicende personali ed amorose dei protagonisti - che si rincorrono, si perdono, si rirovano casualmente - che si incrociano e crescono con l'evolversi della stoira e, infine, ne decidono le sorti.
Al di là del contesto storico, comunque, ciò che più piace di Bon Voyage è proprio il riuscitissimo approfondimento psicologico dei personaggi, credibili, mai macchiette, pieni di sfaccettature, in grado di imprimere cambi di rotta alla propria vita e, soprattutto, di crescere e mutare nel corso del tempo.
Film curato e piacevole.
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