lunedì 8 dicembre 2008

E' arrivata la felicità - F. Capra (1936)

Che farsene di un'eredità da 20 milioni di dollari in arrivo da un lontano parente quando si è sempre vissuti nel proprio piccolo paese e, fra lavoro, volontariato e musica si vive tranquilli? Mr. Deeds goes to town (titolo originale) va innanzitutto contestualizzato storicamente: siamo negli U.S.A. ancora in piena crisi economica ed il presidente Roosvelt, alla vigilia della sua seconda elezione, sta cercando di risollevare il Paese facendo leva su sentimenti quali l'onestà, l'etica del lavoro, la purezza d'animo, contrapposti all'insieme di tutto il male possibile: imbroglioni, approfittatori, sfruttatori,....Si tratta insomma della solita suddivisione "con l'accetta" che il discorso dominante riproduce anche oggi, a 72 anni di distanza (!), allorchè si sente parlare di "incoscienti", "spregiudicati", etc..come se davvero una crisi mondiale potesse essere provocata dalla follia o dall'imprudenza di un manipolo di esaltati e non dalla masochistica (ma non consapevole) vocazione al suicidio lento, giorno dopo giorno, di una fascia enorme e generalizzata di popolazione.
Mr. Longfellow Deeds (Ariosto Deeds nella traduzione italiana dell'epoca) è un giovane signore di campagna, che vive sereno, suona la tuba nella banda del paese, è pompiere volontario e scrive poesie su ordinazione, al fine di pubblicarle su cartoline augurali. L'annuncio della mostruosa eredità non lo smuove granchè, pur costringendolo a trasferirsi in città per seguire gli affari. Tutto attorno si muovono come sanguisughe tutta una serie di personaggi più o meno squallidi e più o meno interessati alla sua fortuna, fra i quali spicca per odiosità l'avvocato Cedar dello studio Cedar, Cedar, Cedar e Budington, intenzionato a mantenere il controllo amministrativo dell'enorme patrimonio. Il signor Deed (Gary Cooper) è paesano, ma certo non ingenuo, tanto che ha l'istinto di tenere sempre al di fuori delle sue decisioni l'avvocato Cedar (del quale dirà anzi che ha "la mano viscida") e di respingere tutte le altre pretese di personaggi squallidi in cerca dell'allocco da spennare.
Louise Bennet (Jean Arthur) è una caparbia giornalista che, riuscendo ad entrare nella vita privata del neomiliardario con uno stratagemma, ne scriverà articoli pungenti, sottolineando i suoi comportamenti spontanei ed infantili con un tono così sarcastico da tracciare l'immagine di un uomo ridicolo e quasi folle. Dulcis in fundo, gli appiopperà un soprannome azzeccato: Cinderella man, tradotto in italiano con un meno chiaro Cincinnato (ma, si sa, in quel periodo storico italianizzare e romanizzare tutto andava per la maggiore..).
Naturalmente i due finiscono per innamorarsi, così è facile immaginare la reazione di Mr Deed quando viene a scoprire che l'autrice di quegli articoli infamanti è proprio lei, la sua "Babe", per cui finalmente si era aperto il cuore ed alla quale aveva appena chiesto – in versi – di sposarsi. Distrutto, decide di utilizzare tutto il suo immenso patrimonio per comprare terre per le grandi masse di disoccupati e ritirarsi al suo paese. Per evitare quest'ultima follia, l'avvocato Cedar ed i parenti esclusi dall'eredità intentano una causa per dimostrare (anche basandosi sugli articoli di giornale) la follia di Deed, farlo internare e revocargli dunque il patrimonio prima dello spèrpero. Durante l'udienza decisiva, Deed tace per l'intera prima parte, considerando che più niente abbia ormai importanza; poi, superato lo shock – grazie anche all'impegno ed al pentimento di Louise – egli riuscirà a far decadere l'accusa con una magistrale e brillante apologia tesa a dimostrare che ognuno, a modo suo, è un po' "picchiatello".
Il film di Capra – Oscar per la miglior regia – è innanzitutto una piacevolissima commedia sentimentale; inoltre, ha il merito di sottolineare difetti e difettucci delle nostre società: arrivismo, avidità, voyerismo (agli esordi), servilismo verso i potenti, pregiudizi verso i forestieri, conformismo e rifiuto delle diversità,...
Ha tuttavia il limite - non piccolo - di mettere in piedi questa critica sociale partendo dal personaggio "buono" (che fa viaggiare bene il sistema, alimenta il sogno americano, fa della beneficenza per aiutare chi è in difficoltà,...) che si contrappone ai cattivi (che invece fanno andare fuori giri il sistema con la loro avidità) e non, al contrario e più radicalmente, partendo dalla critica del sistema stesso, che legittima e anzi richiede per funzionare l'esistenza di mostri come lo studio Cedar, Cedar, Cedar e Budington e, più in generale, lo sfruttamento del più forte sul più debole (altro che la similitudine del salvataggio in barca che recita Cooper durante l'arringa difensiva...).
Questa visione un po' facile e demagogica – del resto tipica di Capra – in quel particolare periodo storico sa anche di ruffianeria.

Le deuxième souffle - J.P. Melville (1966)

Tratto da un romanzo di José Giovanni – ex galeotto corso, che a sua volta passerà dietro la macchina da presa dopo questo film – Le deuxième souffle (nella traduzione italiana: "Tutte le ore feriscono...l'ultima uccide") è un classico del genere gangster movie/noir, stilisticamente perfetto, in cui non manca proprio niente. Il criminale spietato ma tutto d'un pezzo, pronto a morire pur di difendere la sua onorabilità; il poliziotto abile, dalla lingua sciolta e quasi divertito nel giocare a "guardia e ladri"; c'è l'evasione, il nascondiglio, un furgone da assaltare. E poi naturalmente le pistole, tante pistole, le sigarette, i cappelli a tese larghe, il cognac. E lei, la donna, che è sempre la donna del capo, chiunque egli sia.



Gustave Menda, detto "Gu", impersonato da Lino Ventura, è un criminale di "alta categoria", che torna a Parigi dopo un'avventurosa fuga dalla prigione che costa la vita ad uno dei suoi complici. Lì si ritrova con la sua donna, Manouche, e progetta di partire assieme a lei per l'Italia. Prima di partire, però, gli viene offerto di prendere parte ad un colpo da 200 milioni: si tratta di assaltare un furgone che trasporta platino, uccidere la scorta in moto, impossessarsi del bottino. Gu, che ha un disperato bisogno di soldi, accetta.
Il colpo, che ha luogo su una spettacolare strada di montagna, è ben architettato, grazie anche all'aiuto di un informatore, e riesce alla perfezione.
A Gu non resta che aspettare che le acque si siano calmate per incassare e partire.
È a questo punto che si dimostra nella pratica l'intelligenza e la furbizia del commissario Blot (Paul Meurisse) che, rintracciato fortunosamente Gu nel suo nascondiglio, riesce ad estorcergli la confessione con un inganno. Nella dichiarazione emerge anche il nome dell'ideatore del colpo (Paul Ricci), che viene arrestato. Fatto passare per un traditore dal fetente commissario Fardiano – che invece non riuscirà ad ottenere i nomi degli altri complici nemmeno dopo averlo fatto torturare quasi a morte – Gu riesce ad evadere dall'ospedale giudiziario dove era rinchiuso e ad ottenere la sua vendetta, sia su Fardiano ed i suoi metodi, sia sul fratello di Paul, Jo, vero burattinaio senza scrupoli dell'intera vicenda e dunque meritevole di morire.
Memorabili le sequenze finali della resa dei conti e dell'arrivo (come sempre tardivo) della polizia. Nel farsi morire il delinquente Gu fra le braccia, l'onesto commissario Blot lascia trasparire un senso di amarezza e dispiacere.



La povera Manouche è l'unico personaggio femminile in un mondo perturbato da cattiverie maschili e dunque forse sarebbe l'unico punto di vista differente, purtroppo mai approfondito, del film: alla fine si ritroverà sola, come del resto era scritto nel suo destino sfortunato e a quanto pare inevitabile di "compagna del capo".
Cadenzato dall'alternanza di lunghi silenzi ed improvvisi "scoppi" - di parole, di armi – rigidamente formale nella regia e basato sul principio che "buoni" e "cattivi" sono più che mai trasversali alle categorie di "guardia" e "ladro", Le deuxième souffle è anche il rimpianto di un criminale (J. Giovanni) per un mondo che conosceva bene e che vedeva sempre più deteriorarsi. Non a caso, il "vecchio" Gu è rispettato e tenuto in considerazione elevata da tutti, commissario Blot compreso, tranne che dal giovane membro della banda con cui assalta il furgone, simbolo quasi di uno scontro generazionale e di mentalità.
La retorica è quella tipicamente maschilista e conservatrice dell'onorabilità del gangster (o del poliziotto, del padre di famiglia, etc..) di una volta, che manteneva la parola data e non tradiva gli amici, la stessa dell'uomo forte "che non deve chiedere mai".
Remake nel 2007 (Alain Corneau, con D. Auteuil e M.Bellucci)

venerdì 5 dicembre 2008

Elephant - G. Van Sant (2003)


Palma d'oro e premio per la miglior regia a Cannes, Elephant è un lavoro curato e di forte impatto, nonostante una sceneggiatura tutto sommato povera e priva di colpi di scena.
I protagonisti sono un gruppo di giovani, ciascuno alle prese con i suoi problemi e le sue paranoie tipicamente adolescenziali ma, soprattutto, con una grande, infinita solitudine. È questo sentimento (unito ad una forte inquietudine) che resta più di ogni altro allo spettatore al temine degli 80 minuti di Elephant: non c'è condanna, né assoluzione per gli autori della strage (che fa evidente riferimento a quella di Columbine del 1999, pur potendo legarsi ad ogni altra strage perpetrata da ragazzi all'interno di un istituto scolastico).
Quello che colpisce – e che viene visivamente enfatizzato dal ricorso ossessivo di Van Sant alla carrellata a seguire i ragazzi – è il loro completo spaesamento, il loro incedere solitario, triste e sempre uguale per i larghi e spesso deserti e bui corridoi della scuola, in cui il massimo scambio che vi avviene è uno sguardo provocante, o un "batti cinque".
Non c'è nemmeno nessun adulto che possa venire incontro al loro malessere: non potrà il padre ubriacone, non potrà il preside ottuso e severo, non potrà il professore ciarlatano, la madre assente,...e così i ragazzi finiscono per trovare ragioni di vita o modelli da imitare nella linea da mantenere, nel nazismo, nell'alcol, nella passione per le armi. Ferendosi a vicenda, in una sorta di competizione tra fragilità in cui all'aggressivo tocca il ruolo di torturatore, al timido quello della vittima.
È una continua disgregazione quella che mette in scena Gus Van Sant: della famiglia, della scuola come istituzione in grado di comprendere, far crescere e maturare i ragazzi, ma anche delle amicizie, che sembrano basarsi più sulla momentanea, opportunistica condivisione di piaceri passeggeri che non su un reale coinvolgimento emotivo o su uno scopo da raggiungere.
Cosa suggerisce la regia, nel decidere di mostrarci le stesse scene dal punto di vista di diversi ragazzi? Che il vuoto riguarda tutti, nessuno escluso. Che un senso nella vita di questi giovani "normali" non si vede proprio, che in questo ognun per sé e tutti contro tutti davvero l'esistenza si rivela inutile e triste.
La morte di Benny, il ragazzo che aiuta una compagna a saltare fuori dalla finestra per mettersi in salvo e poi, nel silenzio irreale della strage, decide di andare consapevolmente incontro ad una morte certa ne rappresenta in un certo modo l'emblema.
Filma i giovani, Van Sant, per accusare gli adulti, o meglio il mondo che gli adulti hanno contribuito a creare. Un mondo sempre più diviso, fatto di individui deboli che però devono dimostrarsi forti e "duri" per restare a galla. Fino a che, talvolta, ci scappa l'eccesso, lo scoppio di rabbia apparentemente improvviso ed inaspettato, apparentemente folle, ma che tuttavia – ad un occhio sensibile – è tutt'altro che tale. Questo film, sminuzzando il racconto e ricostruendolo da diversi punti di vista prima di arrivare al climax vuole dirci proprio questo: tutte le tragedie, anche le più incomprensibili - e questa certo lo è -, hanno una radice.
Colonna sonora affidata in larga parte a Beethoven, di kubrickiana memoria, così come le carrellate per i corridoi di quella scuola, così simile ad un Overlook hotel.
"Elephant allude al proverbio americano dell' "elefante nella stanza" di cui paradossalmente nessuno si accorge" (il Morandini 2007)